Ezio Raimondi, IL SUGO DELLA STORIA
[ ...] Lo stacco che si avverte nella narrazione dopo la pioggia
del lazzaretto e il « risolvimento della natura » intorno a Renzo per l'ultima
volta in viaggio, pare voluto in maniera da giustapporre un ciclo di eventi
eccezionali e un mondo di nuovo comune, che di essi non conserva se non qualche
ricordo, un riflesso più o meno opaco. La grande stagione delle scelte
drammatiche è passata; riprende la realtà della prosa, degli incontri e dei
dialoghi quotidiani, nel tepore riconquistato della casa, della famiglia. E
tuttavia i problemi che avevano mosso la macchina del racconto si prolungano
inquietanti dentro lo specchio delle coscienze, solo che si sappia cogliere la
presenza del passato nella trama interna degli ultimi colloqui. Non è da
escludere fra l'altro, che l'ironia della conclusione non consista anche in
questa sfida al lettore.
Per giungere a Renzo, conviene rivolgersi a don Abbondio e
metterlo alla prova nel momento in cui, oramai tranquillo, si concede il piacere
di scherzare con Agnese e la « signora » del lazzaretto, alla sua maniera furba
e grossolana. Dice dunque: « Ne abbiam passate delle brutte, n'è vero, i miei
giovani? delle brutte n'abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiam stare
in questo mondo, si può sperare che vogliano essere un po' meglio. Ma!
fortunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da
parlare de' guai passati: io in vece, sono alle ventitrè e tre quarti, e... i
birboni possono morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c'è
rimedio »
Come sempre, don Abbondio è umano, pittoresco, prodigiosamente
vitale; ma è anche vero che non ha appreso nulla, anzi ha già guastato ciò che
l'aveva commosso nel tempo della grande avventura, poiché quelle «ventitrè e
tre quarti» non sono altro che una citazione dal cardinale Federigo, trascritta
in figura comica e involgarita. Era stato infatti il Borromeo a dirgli, con la
sua voce più calda: « Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo
non può tardare ».
Per parte sua, Renzo ha imparato qualcosa di definitivo e lo
ripropone tale e quale a don Abbondio allorché quest'ultimo, sicuro finalmente
che don Rodrigo è morto, esalta i meriti della peste, castigo dei tiranni e
strumento della Provvidenza. L'opposizione fra le due battute salta agli occhi
nettissima, e tutt'altro che a caso. Quella di don Abbondio straripa da tutte
le parti, gioiosa e sfrenata come una danse macabre: « Ah! è morto
dunque! è proprio andato... Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla
fine certa gente. Sapete che l'è una gran cosa! un gran respiro per questo
povero paese, chè non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello
questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che,
figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava
dire che chi era destinato a far loro l'esequie, era ancora in seminario, a
fare i latinucci. E in un batter d'occhio, sono spariti, a cento per volta. Non
lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell'albagia, con
quell'aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che
si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c'è più, e noi ci
siamo. Non manderà più di quell'imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran
fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire ».
La risposta di Renzo, invece, è brevissima: « Io gli ho perdonato
di cuore », ma chi legge rammenta che sono le stesse parole che aveva
pronunciate alla presenza di padre Cristoforo, nella prova del lazzeretto.
(«...capisco che non gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da
bestia, e non da cristiano e ora, con la grazia del Signore, sì, gli perdono
proprio di cuore»). Qualcosa è rimasto nel suo cuore.
Se questo sistema di concordanze e di allusioni ha un senso, e per
uno scrittore come il Manzoni pare difficile che non lo abbia, viene da
concludere che nel dialogo tra Renzo e don Abbondio è in giuoco, una volta di
più, il grande tema della giustizia nell'alternativa di paura e amore,
conformismo e libertà, orgoglio e pazienza: 'e come se per un attimo si
trovassero di fronte la morale di padre Cristoforo e il codice di don Abbondio.
Ma padre Cristoforo è morto, mentre don Abbondio continuava a vivere, pronto a
sedere alla tavola dell'erede di don Rodrigo e a condividere i suoi pregiudizi
di classe, anche per un giorno di festa popolare, nei confronti di due sposi
contadini. In fondo, la peste non ha cambiato nulla: gli uomini dimenticano
presto e si adattano alle regole del mondo. Anche chi ricorda e racconta le
proprie avventure, come Renzo, rischia di cadere nel conformismo, di estrarre
da quanto gli è successo la lezione più facile dell'onestà cauta e passiva. «Ho
imparato, diceva, a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in
piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il
gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì
d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un
campanello al piede, prima d'aver pensato quel che ne possa nascere ». Sembra
oramai che dia ragione a don Abbondio, che accetti il suo principio, la sua «
sentenza prediletta », secondo cui « a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia
ne' suoi panni, non accadon mai brutti incontri »
Delle « cent'altre cose» che Renzo pensa ancora d'avere apprese,
non resta al lettore che tirar a indovinare, per quanto sia lecito il sospetto
che quel numero di gusto un po' fiabesco, aggiunto alla filastrocca degli « ho
imparato », nasconda una punta ironica a carico del personaggio e della sua
pretesa « dottrina ». Del resto, basta che intervenga Lucia con l'osservazione
« sorridente » che « i guai » sono stati loro a venire a cercarla, perché la
sicurezza del suo « moralista » si confonda e cada in crisi.
In realtà, Renzo deve ammettere, da povero contadino, che il
dolore del mondo non si spiega da solo e che « la fiducia in Dio » rimane
l'unico conforto per il viaggio misterioso dell'uomo sulla terra. Ma proprio in
questo consiste poi la giustizia per cui l'uomo può soffrire e sentirsi
fratello di tutti gli oppressi, anche se la paura gli è nota più del coraggio.
Mentre si crede di aver toccato un epilogo pacifico, obbediente alla rinunzia o
alla rassegnazione, il discorso segreto di tutto il romanzo si rimette in moto
e si porta dietro l'angoscia della storia, l'inquietudine della contraddizione,
il sentimento dell'assurdo, così come può arrivare sino agli « infimi » della «
scala del mondo », nello stupore dolente della loro memoria di « gente perduta
sulla terra » che non ha « né anche un padrone ». Dove finisce la ricerca di
Renzo, comincia forse quella del lettore.
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