Italo Calvino – “Il romanzo dei rapporti di
forza”, in Una pietra sopra,
Torino, Einaudi 1980
Attorno
a Renzo e Lucia e al loro contrastato matrimonio le forze in gioco si
dispongono in una figura triangolare, che ha per vertici tre autorità: il
potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero. Due di
queste forze sono avverse e una propizia: il potere sociale è sempre avverso,
la Chiesa si divide in buona e cattiva Chiesa, e l’una s’adopera a sventare gli
ostacoli frapposti dall’altra. Questa figura triangolare si presenta due volte
sostanzialmente identica: nella prima parte del romanzo con don Rodrigo, don
Abbondio e fra Cristoforo, nella seconda con l’innominato, la monaca di Monza e
il cardinal Federigo. Estrarre uno schema geometrico da un libro tanto modulato
e complesso non è una forzatura: mai romanzo fu calcolato con tanta esattezza
come I promessi sposi; ogni effetto poetico e ideologico è regolato da
un’orologeria predeterminata ma essenziale, da diagrammi di forze ben equilibrati.
Certo la qualità manzoniana del romanzo è data non tanto dallo scheletro quanto
dalla polpa, e lo stesso scheletro avrebbe potuto servire a un libro tutto
diverso, per esempio a un romanzo nero: gli ingredienti e i personaggi per
metter su addirittura un Sade, a base di castelli dei supplizi e conventi
perversi, ci sarebbero stati, se Manzoni non fosse stato allergico alla
rappresentazione del male. Ma appunto per dare a Manzoni l’agio di far entrare
nel romanzo tutto quel che gli sta a cuore di dire e di lasciare in ombra tutto
quel che preferisce tacere, bisogna che l’ossatura sia assolutamente
funzionale; e non esiste racconto più funzionale della fiaba in cui c’è un
obiettivo da raggiungere malgrado gli ostacoli frapposti da personaggi oppositori
e mediante il soccorso di personaggi aiutanti, e l’eroe o l’eroina non hanno
altro da pensare che a fare le cose giuste e ad astenersi dalle cose sbagliate:
come appunto il povero Renzo e la povera Lucia. Nei due triangoli, una
somiglianza un po’ ripetitiva e generica lega don Rodrigo e l’innominato, e lo
stesso o quasi si può dire per fra Cristoforo e Federigo. Mentre è nel terzo
vertice, quello del falso potere spirituale, che avviene uno stacco netto: don
Abbondio e Gertrude sono personaggi così diversi e autonomi da comandare al
tono generale della narrazione intorno a loro, commedia di caratteri là dove
don Abbondio è al centro del quadro, dramma di coscienze là dove domina
Gertrude. (Possiamo anche considerare I promessi sposi come un poliromanzo in
cui vari romanzi si susseguono e s’incrociano, e il romanzo di don Abbondio e
quello di Gertrude non sono che i primi e i più compiuti). È chiaro che delle
tre forze in gioco del suo triangolo, quella che Manzoni conosce meglio, o
diciamo quella che esprime meglio il fondo settecentesco della sua cultura e
del suo gusto, è la cattiva Chiesa. La Chiesa buona, malgrado l’ampio posto che
nel romanzo occupano Cristoforo e Federigo, resta una presenza funzionale ma
esterna. Ancora attorno a Cristoforo si muove quella complessità dei rapporti
di forze che è una delle grandi dimensioni manzoniane: la posizione dell’ordine
dei cappuccini, sospesa tra l’autonomia dal sistema e l’esserne parte
necessaria, per via dell’immunità dei conventi, preziosa agli uni e agli altri
(come già fu preziosa all’ex prepotente Cristoforo) e che rende i frati ben
visti anche tra i bravi. Invece, per Federigo, nonostante il personaggio
storico presentato in tutto il suo contesto, è solo la predeterminazione
romanzesca che muove sia lui che il suo temuto penitente. Nel famoso episodio
della conversione i giochi sono fatti fin dall’entrata in scena dei personaggi,
e non resta margine per la diversione o per lo scacco: l’innominato già dal
primo momento mostra "se non rimorso, una cert’uggia delle sue
scelleratezze", e il cardinale è così sicuro del suo potere sulle anime
che quando gli annunciano la visita del tristo cavaliere pensa subito alla
pecorella smarrita e non a una mossa formale di convenienza politica. Anche
quello del tiranno resta un ruolo di repertorio. Tra don Rodrigo e l’innominato
prima della conversione non c’è una differenza se non quantitativa, il secondo
gode di più autorità e impunità del primo (non sappiamo bene perché) e d’una
fama più sinistra (ma anche delle sue scelleratezze poco sappiamo), il suo
"castellaccio" ripete con coloritura più fosca la funzione
scenografica del "palazzotto" di don Rodrigo ("castellotto"
in Fermo e Lucia). Chi siano esattamente don Rodrigo e l’innominato non è
chiaro: e non solo come caratteri psicologici ma neppure come posizione
sociale. Manzoni che è sempre preciso nel delineare le gerarchie, la
distribuzione dei poteri, nella Chiesa e negli organi politici, centrali e
periferici, - castellano spagnolo, podestà, console, - quando tocca il diritto
feudale propriamente detto diventa d’un’insolita reticenza: che don Rodrigo sia
il feudatario dei luoghi è presumibile ma non è mai detto; sappiamo solo che si
fa forte dell’autorità politica del <
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