_________________PROEMIO ENEIDE LIBRO I, vv. 1-7_________________________
Arma virumque cano,
Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Io
canto l'armi e l'eroe, che per primo dalle spiagge di Troia,
profugo a causa del Destino, venne in Italia alle
coste Lavinie,
molto sbattuto sia per terra che per mare dalla forza
degli dei,
e dalla memore
ira della crudele Giunone,
avendo anche sopportato molte cose a causa della
guerra,
finché non fondò la città, e portò gli dei nel Lazio,
da cui [ebbe origine] la stirpe dei latini, i padri
albani e le mura dell'alta Roma.
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PPublio
Virgilio Marone, Eneide - La discesa agli Inferi, libro VI, 264-316
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Libro VI, 264-316, traduzione Luca
Canali
Dei, che governate le anime, Ombre silenti,
265 e Caos e Flegetonte, luoghi muti nella vasta notte,
concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà
rivelare le cose sepolte nella profonda terra e nelle tenebre.
Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria
e per le vuote case di Dite e i vani regni:
270 quale il cammino nelle selve per l’incerta luna,
sotto un’avara luce, se Giove nasconde il cielo
nell’ombra, e la nera notte toglie il colore alle cose.
Proprio davanti al vestibolo, sull’orlo delle fauci dell’Orco,
il Pianto e gli Affanni vendicatori posero il loro covile;
275 vi abitano i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia,
la Paura , e la Fame , cattiva consigliera, e
la turpe Miseria,
terribili forme a vedersi, ela
Morte , e il Dolore;
poi il Sonno, consanguineo della Morte, i malvagi Piaceri
dell’animo, e sull’opposta sogliala Guerra apportatrice di
lutto,
280 e i ferrei talami delle Eumenidi, e la folle Discordia,
intrecciata la chioma viperea di bende cruente.
Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia,
un olmo oscuro, immenso, dove si dice che abitino
a torme i Sogni fallaci, e aderiscono sotto ciascuna foglia.
285 Inoltre numerosi prodigi di diverse fiere,
i Centauri s’installano alle porte e le Scille biformi
e Briareo dalle cento braccia e la belva di Lerna,
e orribilmente stridendo, armata di fiamme, la Chimera,
e le Gorgoni e le Arpie, e la forma del fantasma dai tre corpi.
290 Allora Enea, tremante d’improvviso terrore,
afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti,
e se l’esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite
che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante,
irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre.
295 Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.
Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine
ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.
Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume
Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie
300 incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,
sordido pende dagli omeri annodato il mantello.
Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,
e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,
vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.
305 Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d’autunno
310 cadono scosse le foglie, o quanti dall’alto mare
uccelli s’addensano in terra, se la fredda stagione
li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.
Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto
e tendevano le mani per il desiderio dell’altra sponda.
315 Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,
gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.
265 e Caos e Flegetonte, luoghi muti nella vasta notte,
concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà
rivelare le cose sepolte nella profonda terra e nelle tenebre.
Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria
e per le vuote case di Dite e i vani regni:
270 quale il cammino nelle selve per l’incerta luna,
sotto un’avara luce, se Giove nasconde il cielo
nell’ombra, e la nera notte toglie il colore alle cose.
Proprio davanti al vestibolo, sull’orlo delle fauci dell’Orco,
il Pianto e gli Affanni vendicatori posero il loro covile;
275 vi abitano i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia,
terribili forme a vedersi, e
poi il Sonno, consanguineo della Morte, i malvagi Piaceri
dell’animo, e sull’opposta soglia
280 e i ferrei talami delle Eumenidi, e la folle Discordia,
intrecciata la chioma viperea di bende cruente.
Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia,
un olmo oscuro, immenso, dove si dice che abitino
a torme i Sogni fallaci, e aderiscono sotto ciascuna foglia.
285 Inoltre numerosi prodigi di diverse fiere,
i Centauri s’installano alle porte e le Scille biformi
e Briareo dalle cento braccia e la belva di Lerna,
e orribilmente stridendo, armata di fiamme, la Chimera,
e le Gorgoni e le Arpie, e la forma del fantasma dai tre corpi.
290 Allora Enea, tremante d’improvviso terrore,
afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti,
e se l’esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite
che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante,
irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre.
295 Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.
Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine
ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.
Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume
Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie
300 incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,
sordido pende dagli omeri annodato il mantello.
Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,
e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,
vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.
305 Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d’autunno
310 cadono scosse le foglie, o quanti dall’alto mare
uccelli s’addensano in terra, se la fredda stagione
li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.
Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto
e tendevano le mani per il desiderio dell’altra sponda.
315 Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,
gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.
Analisi VI 264 - 316
Il
VI libro dell’Eneide costituisce lo spartiacque tra la prima parte del
poema, dedicata al racconto delle peripezie di Enea e la seconda, incentrata
sulle guerre condotte nel Lazio dall’eroe troiano per fondare una nuova stirpe,
secondo la profezia ascoltata dal padre Anchise proprio alla fine del libro VI.
Approdato a Cuma e udita la profezia della Sibilla, Enea, si accinge, insieme
ad essa, ad entrare negli Inferi per incontrare l’ombra del padre, che gli
indicherà i grandi personaggi della futura Roma, in un passo esemplificativo
dell’intento celebrativo del poema. Nella rappresentazione del mondo
sotterraneo Virgilio mette però da parte la finalità etico-pedagogica e rivela
tutte le sue qualità di artista. Il poeta utilizza e fonde insieme diverse
fonti rielaborandole con la sua fantasia, come risalta fin dall’invocazione
iniziale: non solo la tradizione poetica (Omero innanzitutto, Esiodo) e
filosofica greca ed ellenistica, ma anche la cultura religiosa orfica, la
civiltà etrusca (Caronte ad esempio) e le credenze popolari (Orcus).La
suggestione della descrizione è amplificata dagli elementi distintivi del
linguaggio poetico virgiliano: fonosimbolismo, uso dell’aggettivazione,
similitudini.
Invocazione
agli dei La narrazione della catabasi
è preceduta dalla classica invocazione agli dei (vv.264-267): qui, però, il
poeta si rivolge agli dei infernali (Plutone e Proserpina), alle ombre dei
morti, a Caos e Flegetonte e ai luoghi stessi. Virgilio è consapevole del
carattere misterico, della difficoltà e diversità della materia: l’invocazione
non vuole infatti ottenere l’ispirazione ma il permesso (sit mihi fas,
numine vestro) di svelare segreti impenetrabili agli umani. Espressiva a
questo proposito la collocazione delle parole pandere e mersas,
dal significato opposto, ai due estremi del verso 267: data la difficoltà
dell’argomento, Virgilio sceglie un verbo, pandere, derivato da
Lucrezio, suo maestro e modello, sebbene il poeta mantovano si accinga ad
“aprire”, a rivelare proprio quel mondo infernale mersus, “nascosto”,
che Lucrezio aveva tentato di dimostrare inesistente per liberare gli uomini
dalla paura della morte. Fin dall’invocazione questo mondo “altro” è connotato
con sostantivi ed aggettivi che ne indicano il silenzio, l’oscurità e la
vastità (umbrae … silentes, efficace sinestesia, loca
nocte tacentia late, res … caligine mersas) e che creano
un’atmosfera irreale, misteriosa, segreta. Il ricorrente suono cupo della /u/
al v. 264 e della /o/ al v. 265, nonché l’iterazione di -um al v. 264
(imperium, animarum,
umbrae) intensificano a livello fonico la
lugubre cupezza del luogo e allo stesso tempo conferiscono solennità
all’invocazione.
Nell’ombra
della notte solitaria - Al v. 268
l’imperfetto ibant segna la ripresa della narrazione, riportando l’attenzione
su Enea e Deifobe, soggetti sottintesi, perché il vero protagonista di tutto il
passo è l’oltretomba. Fino al v. 272 Virgilio insiste ancora sull’immagine
dell’oscurità (obscuri, sub nocte, per umbram) e della solitudine,
dell’assenza di vita (sola sub nocte, domos vacua, inania regna),
servendosi di espressioni vaghe, indeterminate che creano nel lettore uno stato
di suspense, di attesa e di curiosità verso una realtà temuta e costantemente
presente nella vita e nella mente dell’uomo romano. Il v. 268 con la lentezza
degli spondei iniziali accentua l’effetto suggestivo ottenuto con la scelta
degli aggettivi obscuri e sola. Da notare inoltre la costruzione del v. 269,
dove Virgilio accosta ad un’immagine concreta (domos Ditis) una
generica (inania regna) e unisce due aggettivi sinonimici (vacuas
et inania), ad amplificare il senso di vastità irreale del luogo;
suggestivo anche l’iterato suono cupo della /o/ e della /u/ e della sibilante
/s/ (obscuri sola sub) nel v. 268. Per dare più efficacia
all’immagine, il poeta inserisce una similitudine, paragonando l’antro ai
boschi (allusione all’impenetrabilità dei luoghi sotterranei) e la luce a
quella della luna incerta.
Risaltano alcune corrispondenze con i versi precedenti, quali la ripresa delle preposizioni per e sub, aggettivi espressivi, incertam e maligna (particolarmente significativa l’etimologia di quest’ultimo aggettivo: malus gigno= cattivo per natura) e di nuovo immagini di buio, di assenza di colore (umbra, come nox, compare per la terza volta nel giro di otto versi, anche se al primo nel significato di ombre dei morti, con il quale la ritroviamo anche ai vv. 289 e 294).
Risaltano alcune corrispondenze con i versi precedenti, quali la ripresa delle preposizioni per e sub, aggettivi espressivi, incertam e maligna (particolarmente significativa l’etimologia di quest’ultimo aggettivo: malus gigno= cattivo per natura) e di nuovo immagini di buio, di assenza di colore (umbra, come nox, compare per la terza volta nel giro di otto versi, anche se al primo nel significato di ombre dei morti, con il quale la ritroviamo anche ai vv. 289 e 294).
Gli
abitanti dell’oltretomba - Al v. 273
quest’atmosfera caliginosa (caligine, v. 267) inizia a diradarsi, le
porte si aprono (pandere), si entra nella domos Ditis, a
partire dal vestibulum, elemento inedito, introdotto da Virgilio per
la prima volta (forse di derivazione orfica).
Per dare credibilità, verosimiglianza alla sua descrizione, per renderla immaginabile al lettore, ma anche per esorcizzare la paura dell’oltretomba, Virgilio assimila l’estraneo al familiare, mescola realtà e fantasia, concretezza ed indeterminatezza, umanità e disumanità (basti pensare all’indicazione vestibulum ante ipsum del v. 273 precisata subito dopo con quella fantastica primisque in faucibus Orci): si spiega così il suo frequente ricorrere ad indicazioni di luogo attraverso complementi (vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci, adverso in limine v.279, in medio
v. 282, in
foribus v. 286) o avverbi (hinc v.295, huc v.305) o il
tentativo di dare una connotazione umana a quei luoghi (domos Ditis v.
269, posuere cubilia v. 274, habitant v. 275, Eumenidum
thalami v. 280, stabulant v. 286).
Nell’intento rientra anche l’uso del presente storico che, oltre a segnalare una pausa rispetto alla narrazione vera e propria e ad alludere alla realtà eterna di quei luoghi, conferisce vivezza alla descrizione.
I vv. 274-289 costituiscono (con la breve interruzione dei vv. 282-284) un esempio di letteratura catalogica, che risponde ad una tendenza tipica dei Romani alla parata e rivela l’esperienza alessandrino-neoterica di Virgilio. Qui, però, non sono enumerati, come in occasione dell’incontro con Anchise, eroi o illustri personaggi, ma le prime orrende figure (terribiles visu formae) che abitano il vestibolo: rappresentano le personificazioni dei mali naturali e morali che tormentano l’umanità. Si tratta di formae, non meglio determinate, semplicemente citate o connotate mediante aggettivi che alludono agli effetti provocati sull’uomo (pallentes Morbi, tristis Senectus, malesuada Fames, turpis egestas, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens). Non hanno rilievo fisico, Virgilio non dà loro una riconoscibilità, lasciandole astratte, ad eccezione dei ferrei thalami delle Furie e della Discordia la cui descrizione occupa un verso e due piedi. L’angosciante stupore provocato da questo strano corteo è sottolineato dal ritmo incalzante del polisindeto variato e da alcuni artifici stilistici, come le allitterazioni Letumque Labosque, mala mentis, Discordia demens, vipereum vittis, crinem cruentis.Negli ultimi tre versi non è difficile scorgere riferimenti all’attualità (mortiferum Bellum, Discordia demens) e nella scelta degli aggettivi lo spirito pacifista di Virgilio.
Per dare credibilità, verosimiglianza alla sua descrizione, per renderla immaginabile al lettore, ma anche per esorcizzare la paura dell’oltretomba, Virgilio assimila l’estraneo al familiare, mescola realtà e fantasia, concretezza ed indeterminatezza, umanità e disumanità (basti pensare all’indicazione vestibulum ante ipsum del v. 273 precisata subito dopo con quella fantastica primisque in faucibus Orci): si spiega così il suo frequente ricorrere ad indicazioni di luogo attraverso complementi (vestibulum ante ipsum, primisque in faucibus Orci, adverso in limine v.
Nell’intento rientra anche l’uso del presente storico che, oltre a segnalare una pausa rispetto alla narrazione vera e propria e ad alludere alla realtà eterna di quei luoghi, conferisce vivezza alla descrizione.
I vv. 274-289 costituiscono (con la breve interruzione dei vv. 282-284) un esempio di letteratura catalogica, che risponde ad una tendenza tipica dei Romani alla parata e rivela l’esperienza alessandrino-neoterica di Virgilio. Qui, però, non sono enumerati, come in occasione dell’incontro con Anchise, eroi o illustri personaggi, ma le prime orrende figure (terribiles visu formae) che abitano il vestibolo: rappresentano le personificazioni dei mali naturali e morali che tormentano l’umanità. Si tratta di formae, non meglio determinate, semplicemente citate o connotate mediante aggettivi che alludono agli effetti provocati sull’uomo (pallentes Morbi, tristis Senectus, malesuada Fames, turpis egestas, mala mentis Gaudia, mortiferum Bellum, Discordia demens). Non hanno rilievo fisico, Virgilio non dà loro una riconoscibilità, lasciandole astratte, ad eccezione dei ferrei thalami delle Furie e della Discordia la cui descrizione occupa un verso e due piedi. L’angosciante stupore provocato da questo strano corteo è sottolineato dal ritmo incalzante del polisindeto variato e da alcuni artifici stilistici, come le allitterazioni Letumque Labosque, mala mentis, Discordia demens, vipereum vittis, crinem cruentis.Negli ultimi tre versi non è difficile scorgere riferimenti all’attualità (mortiferum Bellum, Discordia demens) e nella scelta degli aggettivi lo spirito pacifista di Virgilio.
L’albero
e i mostri infernali - L’elenco è
interrotto da una breve sequenza (vv. 282-284) dedicata all’ulmus opaca
ingens, albero infernale perché non produce frutti e sede dei Sogni vani,
secondo un’antichissima credenza che immagina i sogni come demoni-uccelli:
anche qui risalta l’abilità del poeta nell’uso di aggettivi comuni (come ingens)
che, inseriti in particolari contesti, acquistano un valore evocativo di grande
efficacia. In questo caso, poi, l’enjambement
ai vv. 282-283 (pandit ulmus), la sinalefe al v. 283 (opaca ingens), l’asindeto e la
cesura dopo
ingens paiono voler rappresentare visivamente la mole minacciosa ed
inquietante dell’albero i cui rami sono assimilati a braccia umane.La rassegna
prosegue poi con i veri e propri monstra, ibridazioni di diverse
bestie (ma l’animalità era già implicita in espressioni come in faucibus
Orci del v. 273 e cubilia del verso successivo), la cui ferinità
è sottolineata dal verbo stabulant, riferito propriamente ai Centauri
ma allargato con uno zeugma a tutti
gli altri. Virgilio ha modo di sfoggiare la sua erudizione inserendo le Scille,
donne-pesce, il gigante Briareo dalle cento braccia, la belva di Lerna, sorella
di Cerbero, la Chimera, le Gorgoni, le Arpie e Gerione, mostri che rompono il
silenzio (ma già i ferrei thalami suggerivano sinistri stridori
metallici), preparando quello che sarà il vero e proprio paesaggio infernale.
La
trepidazione di Enea - Solo a questo
punto Enea è nominato perché Virgilio interrompe la descrizione per riportare
lo sguardo sull’eroe e descriverne la reazione di fronte a tale fitta nube di
mostri (vv. 290-294): al v. 290 il verbo corripit (continua l’uso del
presente) in incipit, il ritmo dattilico e l’allitterazione
formidine ferrum accompagnano la velocità del gesto impulsivo di Enea
(il nome compare in iperbato e in
enjambement all’inizio del verso successivo) che afferra la spada
istintivamente, mentre in posizione centrale compare trepidus,
aggettivo tipicamente virgiliano. L’iterazione
della /r/, raddoppiata (corripit, ferrum) o in unione con altre
consonanti (trepidus, formidine, inruat, frustra, diverberet umbras)
rende, attraverso la durezza fonica, l’agitazione dell’eroe pronto allo
scontro. Vi si oppone la “dottrina” della Sibilla (la solennità è accentuata
dagli arcaismi ni e tenuis) che ammonisce Enea tranquillizzandolo
sull’inoffensività di quelle che sono solo ombre prive di consistenza (nel v.
293 è evidente il debito verso Lucrezio da cui è ripreso il frequentativo volitare):
al suono aspro dei versi iniziali si oppone così quello aperto e chiaro della
/a/ (ben cinque sono in arsi).
Caronte
- Dal v. 295 prosegue il cammino
verso le sponde dell’Acheronte. Significativa la paronomasia
tra umbras (v. 294) e undas (v. 295) che crea una corrispondenza tra
le ombre svolazzanti e spaventose dei mostri e le onde torbide e agitate
dell’Acheronte. Sullo sfondo di un paesaggio primordiale (il pensiero ritorna
al Chaos invocato all’inizio di ascendenza orfica) di acque fangose e
ribollenti (da notare l’espressività del v. 296: l’iperbato che evidenzia turbidus
e gurges ai due estremi, l’effetto onomatopeico creato dai gruppi
consonantici, l’allitterazione vasta voragine, l’enjambement), appare la figura
più viva di questo brano, Caronte, a cui è dedicata la più lunga sequenza
descrittiva (vv. 298-304). Il nome è enfaticamente ritardato al v. 299 (anche
questa tendenza all’occultamento del soggetto, come quella all’abolizione delle
preposizioni, concorre a dare ambiguità, suspense al racconto) dove acquista
evidenza per la cesura eftemimera. Virgilio lo presenta innanzitutto attraverso
la sua funzione con l’apposizione portitor (al v. 315 sarà navita)
seguita da un aggettivo, horrendus che introduce, insieme a terribili
squalore (richiama terribiles visu formae del v. 277), la descrizione
del personaggio, incentrata su due elementi, la ruvidezza e la sporcizia (horrendus
da horreo = essere irto, squalor da squaleo = essere
ruvido). La descrizione è sviluppata nei versi successivi attraverso tre
proposizioni relative introdotte da cui e coordinate per asindeto. Si tratta di
una caratterizzazione fisiognomica: la barba incolta e lo sporco mantello da
marinaio precisano il senso di quell’horridus e di squalor.
La scelta del verbo iacet accentua il senso di trascuratezza, stant
di fissità irreale della figura (da notare il chiasmo che
avvicina i due verbi). La corrispondenza tra paesaggio (al v. 298 il pleonasmo aquas
et flumina amplifica il senso di vastità e di mistero dei luogo) e
personaggio è sottolineata dal parallelismo sintattico tra il v. 301 e il v.
296: aggettivo in incipit (turbidus - sordidus) separato in
iperbato dal sostantivo in explicit (gurges - amictus). Un
eguale gusto simmetrico (e anche musicale) rivela inoltre, nei vv. 298-300, la
scelta di parole isosillabiche e isometriche (quinto piede dattilico): flumina,
plurima e lumina.Tutta la descrizione di Caronte è
caratterizzata da espressioni ambigue, forse a tradurre anche sintatticamente
lo stupore e lo spavento provocato da quest’apparizione: pensiamo a stant
lumina flamma al v. 300 (dove flamma può essere interpretato come
ablativo di materia senza preposizione o, meno probabilmente, come apposizione
o predicativo di lumina); a subvectat (il ricorrere della
preposizione sub soprattutto nella parte iniziale del passo, al v.293
e nella composizione dei verbi riferiti a Caronte, subigit e subvectat,
potrebbe essere un’allusione, magari non consapevole, al mondo sommerso,
sub-umano) corpora cumba al v. 303 (dove cumba può essere
inteso come ablativo di mezzo o compl. di stato in luogo senza preposizione); a
cruda deo viridisque senectus al v. 304 (dove sorprende l’uso variato
di senectus e l’ellissi del
verbo, mentre deo può essere inteso come dativo di possesso (in questo
caso il verbo sottinteso sarebbe est) o dativo dipendente dagli
aggettivi.
Quella di Caronte è un’immagine talmente forte, quasi ipnotica (stant lumina flamma) da restare isolata, da catturare su di sé tutta l’attenzione. Solo al v. 302 il poeta lo “umanizza” rappresentandolo, quasi con stupore (ipse), dato l’aspetto fisico, nell’atto di governare la barca, qui definita ratis (zattera) come a completare il quadro di squallore (mentre al v. 303 è indicata come cumba per creare allitterazione con corpora): è comunque una vera e propria barca dotata di pertica e di vele (ancora uno sforzo di precisione realistica di Virgilio), ma ferruginea (ricordiamo i ferrei thalami del v. 280) perché tutto qui è sommerso dalla caligo (v. 267). In questo paesaggio monocromo (rebus nox abstulit atra colorem, v.272), grigio e opaco, spicca dunque una sola luce, un solo, infernale colore: il rosso, quello delle bende insanguinate della Discordia, delle fiamme della Chimera e quello degli occhi di Caronte.
Al v. 304 Virgilio rivela che è un vecchio, ma un vecchio robusto come può essere solo un dio (significativo l’ossimoro viridis senectus che accentua la diversità fantastica del personaggio).
L’immagine virgiliana di Caronte ha esercitato una profonda suggestione nella tradizione poetica: basti pensare alla descrizione del demone infernale nel canto III dell’Inferno dantesco.
Quella di Caronte è un’immagine talmente forte, quasi ipnotica (stant lumina flamma) da restare isolata, da catturare su di sé tutta l’attenzione. Solo al v. 302 il poeta lo “umanizza” rappresentandolo, quasi con stupore (ipse), dato l’aspetto fisico, nell’atto di governare la barca, qui definita ratis (zattera) come a completare il quadro di squallore (mentre al v. 303 è indicata come cumba per creare allitterazione con corpora): è comunque una vera e propria barca dotata di pertica e di vele (ancora uno sforzo di precisione realistica di Virgilio), ma ferruginea (ricordiamo i ferrei thalami del v. 280) perché tutto qui è sommerso dalla caligo (v. 267). In questo paesaggio monocromo (rebus nox abstulit atra colorem, v.272), grigio e opaco, spicca dunque una sola luce, un solo, infernale colore: il rosso, quello delle bende insanguinate della Discordia, delle fiamme della Chimera e quello degli occhi di Caronte.
Al v. 304 Virgilio rivela che è un vecchio, ma un vecchio robusto come può essere solo un dio (significativo l’ossimoro viridis senectus che accentua la diversità fantastica del personaggio).
L’immagine virgiliana di Caronte ha esercitato una profonda suggestione nella tradizione poetica: basti pensare alla descrizione del demone infernale nel canto III dell’Inferno dantesco.
Le
anime degli insepolti - Ai vv.
305-316 l’inquadratura si sposta sulla turba delle anime degli
insepolti che attendono sulle sponde dell’Acheronte (l’huc si
riallaccia ai vv.295-297) di essere traghettati sull’altra sponda. Ritorna
l’imperfetto (ibant del v. 268) al posto del presente, forse per
indicare la continuità senza fine di una scena che si ripete in eterno.
Virgilio vuole comunicare l’idea della moltitudine e, prima di ricorrere alle
due famose similitudini riprese da Dante (Inferno, III), lo fa attraverso le
parole: omnis turba, pleonasmo (dove omnis nella sua
indefinitezza rende l’idea dell’incalcolabile quantità), effusa, usato
propriamente per i liquidi che si spargono, ad indicare l’ansioso accorrere
disordinato (ruebat). Virgilio passa dal campo lungo al piano
ravvicinato per dare un volto a quell’anonima omnis turba (i vv.
306-308 si trovano identici anche nella parte del IV libro delle Georgiche
dedicata alla catabasi di Orfeo): il pathos della scena è intensificato dal
ritmo incalzante del polisindeto variato, dalla suggestiva espressione defunctaque corpora vita, con l’effetto
emozionale creato dalla ridondanza defuncta vita. Seguono le due
similitudini coordinate dal nesso disgiuntivo aut, introdotte entrambe
da quam multa-ae e accomunate dall’immagine del volo (quello obliquo
delle foglie secche lapsa, quello degli uccelli migratori) perché le
anime sono volteggianti, ma asimmetriche. La seconda occupa ben due versi e
mezzo, ha dunque una lunghezza doppia rispetto alla prima e maggiore
complessità sintattica: anziché al semplice complemento di tempo (autumni
frigore primo), il poeta ricorre a proposizioni temporali coordinate
introdotte da ubi. Questo maggiore rilievo non è senza significato, in
quanto il secondo paragone, oltre a visualizzare la massa (glomerantur),
rende anche l’idea della corsa precipitosa (fugat) da un luogo
inospitale (gurgite ab alto che richiama gurges dell’Acheronte) a terris
apricis (i Campi Elisi). Sia per le foglie che per gli uccelli la spinta è
il freddo, per le anime ripae ulterioris amor, che ha la stessa
irresistibile forza di quella naturale della stagione fredda.Questi ultimi
versi rivelano la pietas del poeta che ora guarda quelle anime ora ferme (stabant)
sulla riva a pregare con le mani tese verso l’altra sponda: la tristezza
dell’immagine è intensificata dal ritmo lento degli spondei e dalla forte pausa
al v. 314, mentre la presenza commossa del poeta è evidenziata dall’aggettivo
riferito a Caronte, tristis, (la ruvidezza fisica è anche ruvidezza
morale) e dall’avversativa sed al v. 315.
Eneide, canto VI
(vv. 752-759, 788-795, 847-853)
Dixerat
Anchises natumque unaque Sibyllam
conventus
trahit in medios turbamque sonantem,
et tumulum
capit unde omnis longo ordine posset
adversos legere et venientum discere vultus.
"Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,
illustris
animas nostrumque in nomen ituras,
expediam
dictis, et te tua fata docebo.
..............................................................
Huc geminas
nunc flecte acies, hanc aspice gentem
Romanosque
tuos. Hic Caesar et omnis Iuli
progenies magnum caeli ventura sub axem.
Hic vir, hic
est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus
Caesar, divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno
quondam, super et Garamantas et Indos proferet imperium.
....................................................................
Excudent alii spirantia mollius aera
(credo
equidem), vivos ducent de marmore vultus,
orabunt causas
melius, caelique meatus
describent
radio et surgentia sidera dicent:
tu regere imperio populos,
Romane, memento
(hae tibi erunt
artes), pacisque imponere morem,
parcere
subiectis et debellare superbos."
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Traduzione
Anchise
aveva parlato e conduce il figlio e insieme la Sibilla in mezzo ai gruppi e
alla turba risonante, e occupa un’altura da dove possa vedere tutti di fronte in lungo
ordine e riconoscere i volti di quelli che passavano.
“Ora suvvia,
ti spiegherò quale gloria attenda in
futuro la prole dardania, quali discendenti dalla gente italica siano
destinati, anime illustri che andranno nel nostro nome, e a te indicherò il
tuo destino.
………………………………………………
Ora volgi qui
(entrambi) gli occhi, osserva questa
gente e i tuoi Romani. Qui (è) Cesare e tutta la stirpe di Iulo che verrà sotto la grande volta del cielo. Questo è l’uomo,
proprio questo, che molto spesso senti esserti
promesso, Cesare Augusto, stirpe divina, che fonderà di nuovo nel Lazio l’età
dell’oro, sui campi regnati un tempo da Saturno, estenderà l’impero sopra i Garamanti(1) e gli Indi………………………………
Forgeranno
altri più dolcemente i bronzi che respirano (lo credo davvero), trarranno dal
marmo vivi volti, peroreranno meglio le cause e descriveranno con il compasso
i percorsi del cielo e indicheranno gli astri che sorgono: tu, o Romano,
ricordati di dominare i popoli (queste saranno le tue arti), di imporre le
norme della pace, di risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.”
(1) popolazione nomade del deserto libico.
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La catabasi di Enea
e la catabasi di Odisseo:
due esperienze diverse
Il racconto della catabasi di Enea diverge profondamente
dal suo modello omerico, cioè dalla
discesa agli Inferi di Odisseo narrata nell’XI libro
del poema greco, per alcune ragioni fondamentali.
Innanzitutto, quella di Odisseo non è una catabasi
nel vero senso della parola, in quanto l’eroe
si ferma sulla soglia dell’Ade e non si avventura
nel mondo sotterraneo, come fa invece Enea sotto
la scorta autorevole della Sibilla. In secondo
luogo, Odisseo vive questa esperienza tutto da
solo, diversamente dall’eroe romano, che si
avvale della guida preziosa della sacerdotessa, la
quale gli illustra i segreti del mondo degli Inferi.
Infine, la catabasi di Enea ha un significato e
uno scopo ben diversi rispetto a quelli dell’avventura
di Odisseo.
L’Ade di Virgilio
A differenza di quello omerico, l’Ade virgiliano è
un luogo fortemente strutturato, la cui complessa
geografia riflette un’altrettanto complessa
concezione del destino delle anime nell’aldilà, che
non trova riscontro nei testi classici più antichi
dell’Eneide e che, in particolare, è del tutto assente
nell’Odissea. In Virgilio, infatti, prevale l’idea
che le anime siano sottoposte a un giudizio
ultraterreno e che, alla condotta degli uomini
durante la vita corrisponda un premio o una punizione
nell’oltretomba. La cultura greca arcaica
invece ignorava il concetto della punizione
ultraterrena: chi si era reso responsabile di
misfatti nei confronti delle leggi divine e umane
riceveva, in vita, la sua punizione, la quale poteva
abbattersi in qualche caso anche sui suoi discendenti.
Soltanto intorno al V secolo a. C. si affermò
definitivamente in Grecia il concetto di un giudizio
dopo la morte, che distingueva i buoni dai malvagi
e che si affermò soprattutto grazie alla diffusione
dell’orfismo.
Un avvenire glorioso:
la grandezza di Roma
Virgilio ha subìto sicuramente l’influenza dei
testi orfici, nonché quella della filosofia di Platone,
soprattutto per quanto riguarda la dottrina
della reincarnazione o metempsicosi. Questa
teoria, però, viene accolta nel poema, solo in
quanto permette all’autore di stabilire un legame
tra la vicenda di Enea e la storia della grande
Roma: la sfilata delle anime in attesa di reincarnarsi
nei grandi personaggi romani del futuro è
concepita infatti per celebrare, attraverso le
imprese dei suoi uomini più illustri, la gloriosa
storia della città. Virgilio attribuisce al viaggio agli
Inferi di Enea una motivazione chiara ed evidente,
che è poi quella espressa da Anchise: egli deve
scendere fra i morti per conoscere tutto della stirpe
e della città di cui sarà il fondatore, in modo da
essere sempre più felice di aver finalmente raggiunto
l’Italia. A differenza di Odisseo, che scende
agli Inferi unicamente per conoscere la sua sorte
personale, Enea affronta questa prova per apprendere
una verità di portata universale, ovvero il futuro
della città destinata a dominare il mondo.
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