Parole chiave del medio evo:
Età di mezzo?
invasioni barbariche
feudalesimo
cattolicesimo
castelli e conventi
passaggio dal latino ai volgari
nascita delle letterature nazionali
codificazione dei generi letterari
spopolamento delle campagne, urbanizzazione
Impero
liberi Comuni
cattedrali: affreschi e vetrate
allegoria
predicazione
pellegrini
mercanti
senso del peccato e mortificazione del corpo
"nascita" del purgatorio
Peste
Parole chiave dell'Umanesimo
Signorie
Banche
Da Dio... all'Uomo
Il libro e la trasmissione del sapere
" Homo sum; nihil humani a me alienum puto" (Terenzio, II sec A.C.)
Da Treccani.it:
dell’umanesimo successivo -vede nella parola rifondata lo strumento di ricostruzione degli orizzonti di tutti i saperi, e nella correttezza linguistica del latino il potenziale fondamento per
una rinascita della cultura e della civiltà non solo delle lettere ma di tutte le discipline. Un testo
“risanato” con le armi filologiche poteva non solo restituire emendate le lezioni degli antichi,
ma anche sovvertire luoghi comuni, interpretazioni distorte, sillogismi stantii, che si insinuavano tra le righe dei volumi di diritto, di medicina, e di ogni dottrina tramandata dal passato che trovasse posto nel sapere consolidato o addirittura concreta e abituale applicazione nella vita pratica e civile. In questa “ragione” filologica è la prima grande espressione della modernità degli umanisti, che è ricerca di un "metodo".
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Il Discorso sulla dignità dell'uomo di Pico della Mirandola (1463-1494) è considerato il «Manifesto del Rinascimento». Scritto nel 1486, contiene infatti l'esaltazione della creatura umana, come creatura libera e capace di conoscere e dominare la realtà intera. Ancor più di questo però il Discorso parla del compito della creatura umana: questa, priva di immagine predeterminata, deve perseguire la propria compiutezza con un percorso che muove dall'autodisciplina morale, attraversa la pluralità delle immagini e dei saperi, e tende alla meta più alta, non rappresentabile. Pico della Mirandola ritiene che questo paradigma di sviluppo dell'esistenza sia universale, perché rintracciabile in tutte le tradizioni.
L' esordio:
"Ho letto, negli scritti degli arabi, padri venerandi, che Abdallah Saraceno, essendo gli stato domandato che cosa in questa sorta di scena del mondo gli apparisse più ammirevole, rispose che nulla gli appariva più ammirevole dell'uomo. Con questo si accorda il detto di Mercurio: «Grande miracolo è l'uomo»"
Ricordiamo le parole con cui Dio si rivolge alla sua creatura:
Stabilì infine l'ottimo artefice che a colui, cui non poteva dare nulla di proprio, fosse comune tutto quanto era proprio dei singoli. Prese dunque l'uomo, opera di immagine indefinita, e postolo nel centro del mondo così gli parlò: « Non ti abbiamo dato, o Adamo, né una sede determinata, né aspetto peculiare, né alcuna funzione speciale, affinché tu possa ottenere e possedere secondo il suo desiderio e consiglio quella sede, quell'aspetto, quella funzione che ti sarai scelto. La natura definita degli altri è costretta entro leggi da noi prescritte. Tu, non costretto da alcuna angustia, la definirai secondo il tuo arbitrio, cui ti ho affidato. Ti ho posto nel mezzo del mondo, perché di là potessi, guardandoti intorno, scorgere meglio tutto ciò che è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso. Potrai degenerare negli esseri inferiori, i bruti; potrai rigenerarti, se lo vorrai, nello cose superiori, divine»_________________________________________________
Vivunt, conversantur loquunturque nobiscum, docent nos, instruunt, consolantur, resque a memoria nostra remotissimas quasi praesentes nobis exhibent, et ante oculos ponunt. Tanta est eorum potestas, tanta dignitas, tanta majestas, tantum denique numen, ut nisi libri forent, rudes omnes essemus atque indocti, nullam fere praeteritarum rerum memoria, nullum exemplum. | Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presentire ponendocele sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto grande è il loro potere, la loro dignità, la loro maestà, e, infine, la loro santità che, se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio. |
Il lemma corte
si rifà al latino medievale cortis, curtis, (a sua volta derivato dal latino classico cohors,"cortile", ma anche "coorte", "stuolo", "corteo") indicante il comprensorio territoriale sito attorno al castello del feudatario: nel corso del Medioevo, a questo significato originario si sovrappone quello corrispondente al provenzale cort, propriamente il luogo di raduno dei nobili attorno al loro signore. Il significato di corte si sovrappone, negli usi latini classici e moderni, anche ad altri due termini anch'essi latini: curia, in quanto "edificio ove si radunano cittadini illustri", e aula, intesa nel senso traslato di "reggia": "Fraus sublimi regnat in aula" (Seneca, Phaedra: "la perfidia regna nelle corti dei potenti");curialis e aulicus sono, dunque, sinonimi di "cortigiano". Questi significati si trasferiscono negli usi volgari: "è il luogo più spazioso del palazzo, che alcuni lo chiamano cortile" (Alunno, La fabrica del mondo, p.146); "La corte è una unione di uomini di qualità alla servitù di persona segnalata, e principale, [...] la corte [è] gran maestra del vivere umano, sostegno della politezza, scala dell'eloquenza, teatro degli onori, scala delle grandezze e campo aperto delle conversazioni e dell'amicizie [...], e, per dirla in una parola sola, di tutte le cose più onorate, e degna in tutta la fabbrica del mondo, nel quale si fonda e afferma ogni nostro oprare e intendere" (Ripa, Iconologia, p.145). La corte diventa il paradigma culturale della società aristocratica di Antico regime: è anzi il luogo "rinascimentale" per antonomasia, dove è possibile produrre e scambiare arte e poesia, grazie alla liberalità e magnificenza del Principe. Ma soprattutto la corte è il luogo visibile, e simbolico, del potere: è la casa del Principe e della sua famiglia. Tutto si svolge a corte: il governo dello stato, nelle sue decisioni politiche (ma anche di giustizia) e nelle trattative diplomatiche; gli intrattenimenti e gli svaghi che scandiscono il tempo quotidiano della corte in quanto tempo della sua civileconversazione e della esemplare sua virtù (tornei, feste, spettacoli, danze, banchetti, musica, teatro, giochi, feste, esibizione dei buffoni, eccetera); le iniziative di promozione e committenza della cultura e delle arti. La corte è il luogo dove trovano lavoro competenze diverse: sia per le esigenze ordinarie della sua vita domestica di ogni giorno (amministratori, maggiordomi, vivandieri, cuochi, guardarobieri, servitori di vari livelli, stallieri, maniscalchi, eccetera: in funzionale ordinamento gerarchico), sia per le necessità istituzionali del suo buon governo (funzionari, diplomatici, magistrati, segretari, eccetera), sia per le attività culturali (istitutori dei figli del principe, letterati, musicisti, danzatori, scenografi, attori, buffoni, eccetera). Per queste funzioni la corte recluta e assume un numero notevole di umanisti, prima, e scrittori poi: tra Quattrocento e Cinquecento sono chiamati alla carica di segretario personale del principe (o del cardinale) insigni letterati. Sin dal Medioevo, la corte ha un'altra faccia: è il luogo dove si concentrano i peggiori vizi, quali l'adulazione, l'invidia, la piaggeria, la corruzione, la lussuria, l'infedeltà, eccetera; e i cortigiani sono la feccia dell'umanità ("Cortigiani vil razza dannata …", griderà ancora Rigoletto nell'opera di Giuseppe Verdi, in prima rappresentazione nel 1851). Questa topica tradizione anticortigiana affiora in tante altre opere: ad esempio, in Ariosto ("So ben che dal parer dei più mi tolgo / che ‘l stare in corte stimano grandezza, / ch'io pel contrario a servitù rivolgo",Satire, III, vv. 28'30). Efficace è anche questo pensiero di Guicciardini: "Chi sta in corte de' principi e aspira a essere adoperato da loro, stia quanto può loro innanzi agli occhi, perché nascono spesso faccende che, vedendoti, si ricorda di te e spesso le commette a te; le quali, se non ti vedessi, commetterebbe a un altro" (Ricordi, 94). Sin dal 1584 Torquato Tasso progetta un dialogo sul tema della corte, e lo completa nel 1587 con il titolo Il Malpiglio, overo de la Corte, dove rielabora e compendia la tradizione discorsiva sulla corte, in positivo e in negativo: "F. N.: Quelle cose medesime dunque le quali acquistan la benevoglienza de' principi, generan l'invidia cortigiana: laonde, non si potendo l'una e l'altra conseguire, non ci dobbiam curar d'essere invidiati de la corte, o non conviene con tanto studio ricercar la grazia de' signori" (I 43); "F. N.: La corte dunque è congregazion d'uomini raccolti per onore" (I 55); "F. N.: "tanto dovrebbono esser partecipi de la prudenza e de le maniere laudevoli de la corte, quanto bastasse a farli più cari al principe e a ciascun altro" (I 171).
(Paola Cosentino)
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GASPARA STAMPA
http://www.cristinacampo.it/public/gaspara%20%20stampa.pdf
http://tesi.cab.unipd.it/56813/1/Edoardo_Simonato_2017.pdf
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