sabato 2 aprile 2011

Seneca e Petronio, al tempo di Nerone

Nerone era un Nerone, anzi un Cajjostro; /
 e ppe l’appunto se chiamò Nnerone /
pell’anima ppiú nnera der carbone, /
 der zangue de le seppie, e dde l’inchiostro.
Quer lupo, quer caníbbolo, quer mostro /
 era solito a ddì nnell’orazzione: /
 «Dio, fa’ cche tutt’er Monno abbi un testone, /
 pe ppoi ghijjottinallo a ggenio nostro».
Levò a fforza er butirro a li Romani, / 
scannò la madre e ddu’ mojje reggine, /
 e ammazzò ttutti quanti li cristiani.
 Poi bbrusciò Rroma da piazza de Ssciarra /
 sino a Ssanta-Santòro, e svenò arfine 
/ er maestro co ttutta la zzimarra.

Questo sonetto di Gioacchino Belli del 1835 riassume icasticamente il mito di Nerone (37 d. C. – 68 d. C.) despota folle e sanguinario – fratricida, matricida, uxoricida, assassino di rispettabili senatori e del suo maestro Seneca, incendiario, persecutore di cristiani, per di più guitto e velleitario citaredo - che per quasi due millenni ci hanno tramandato unanimi gli scrittori pagani e quelli cristiani. Una lucida analisi di Giuseppe Flavio, scrittore ebreo che ebbe la protezione di Poppea e che conobbe la corte dell’epoca, consente di risalire alle origini della leggenda nera dell’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia. Nelle Antichità Giudaiche sostiene che la memoria di Nerone aveva ricevuto consensi o denigrazioni da parte degli storici a seconda dei benefici ottenuti o dei torti subiti: i primi non avevano badato alla verità, i secondi mentivano spudoratamente. Anche Cornelio Tacito, che era adolescente quando Nerone morì, nel primo libro degli Annales fa una premessa: “Le imprese di Tiberio, Gaio, Claudio, Nerone, furono falsificate per paura mentre erano in auge e, dopo la loro morte, sotto l’influenza di risentimenti ancora freschi”. In questa luce va dunque letta l’irrimediabile ostilità delle uniche fonti autorevoli di cui disponiamo, dagli Annales tacitiani alle Vitae Cesarum di Svetonio Tranquillo alla monumentale Storia di Roma di Dione Cassio, tutti partigiani del Senato con il quale Nerone fu in stato di guerra permanente. E altrettanto malevole sono comprensibilmente le fonti cristiane, a cominciare da Tertulliano e Lattanzio, che hanno bollato l’imperatore come il primo, grande persecutore religioso. Condannato da una parte e dall’altra l’immagine di Nerone che ha prevalso per quasi due millenni è quella del tiranno maledetto capace di ogni iniquità, anche post mortem, che ha suggestionato schiere di scrittori, pittori, musicisti, raggiungendo anche Hollywood.
In tempi recenti sono stati compiuti alcuni tentativi di discernere le accuse vere dalle false e restituire un’immagine più obiettiva e pacata ma l’intento della grande rassegna attualmente in corso a Roma non è quello di assolvere Nerone dalle sue numerose e innegabili colpe e tanto meno di stabilire la verità storica, quanto piuttosto di mostrare l’altra faccia di questo personaggio abitualmente ritratto a tinte fosche ma che fu anche uomo di notevole talento, grande ingegno e ancora più grande energia. La sua figura viene esaminata a tutto tondo e con un´analisi che riesce a dare conto della complessità e contraddittorietà dell'ultimo dei Giulio-Claudii, cominciando dal suo diverso agire nel corso degli anni di regno: con un primo quinquennio in una qualche maniera illuminato ed equilibrato e poi completamente smentito negli anni successivi in un crescendo di efferatezze, fino alla tragica uscita di scena nel 68. Al punto che Andrea Giardina, nell’interessante saggio che apre il catalogo,  afferma: "Se Nerone fosse morto nei primissimi anni del suo regno… lo ricorderemmo con epiteti favorevoli, molto lontani da quello, spietato, attribuitogli dal contemporaneo Plinio il Vecchio: veleno del mondo". In mostra sono quasi 200 i pezzi presentati,  tra sculture, rilievi, affreschi e reperti di recenti scavi, dislocati in cinque sedi diverse. Si comincia dalla Curia Iulia nel Foro Romano con i ritratti dell’imperatore e della famiglia. Rispetto ai predecessori (Augusto, Tiberio, Caligola e Claudio) Nerone adotta nuove mode tra cui la “coma in gradus formata”, la chioma artificiosamente ondulata quasi a formare dei gradini ma a causa della damnatio memoriae che colpì la sua figura sono pochi i suoi ritratti sopravvissuti. Numerosi sono invece quelli dell'odiata madre Agrippina, la cui acconciatura, con la scriminatura centrale e lunghi riccioli sulle tempie, fu molto ammirata e imitata dalle matrone romane. In mostra anche un presunto ritratto di Poppea (solitamente a Palazzo Massimo), donna di rara bellezza e intelligenza, amante del lusso sfrenato che di Nerone fu prima amante, poi sposa e infine vittima. Dipinti e sculture di età moderna testimoniano la straordinaria presa sull’immaginario degli artisti della figura dell’ultimo dei Giulio-Claudii, insieme anticonformista e scellerata. Soggetti neroniani furono frequentati in particolare nei decenni successivi all’Unità d’Italia: due opere in mostra segnano gli estremi cronologici di questa serie. Del 1863 è il “Nerone vestito da donna” del toscano Emilio Gallori, in cui sotto l’istrione travestito da etera s’indovina il tiranno che uccide. Al 1910 data “La morte di Nerone” di Achille Jemoli che mette in scena la solitudine dell’imperatore, uomo stremato dalla fatica di una vita depravata. Da segnalare la presenza in mostra di “Nerone a Baia” (1900 ca) del polacco Jan Styka che ritrae Nerone nel luogo in cui decise di uccidere l’odiata madre: il suo volto è lugubre, lo sguardo perso nel vuoto, sullo sfondo di un paesaggio inquietante dominato dal Vesuvio. Si prosegue nel Tempio di Romolo (sempre nel Foro Romano) con la sezione dedicata alla fortuna cinematografica di Nerone al quale hanno prestato il volto attori come Ettore Petrolini, Alberto Sordi, Peter Ustinov e Klaus Maria Brandauer, tingendo di tetra ironia il ritratto di un uomo che amò la scena ancor più della politica. Dal Foro si sale sul Palatino, dove nel Criptoportico neroniano si affrontano i temi della propaganda politica neroniana, con i suoi risvolti demagogici - esposti rilievi e iscrizioni - che ne raccontano le gesta - e del lusso sfrenato profuso nei palazzi imperiali che abbondavano di marmi preziosi, stucchi e raffinati decori. Nel Museo Palatino, in particolare, magnifiche decorazioni di marmi e stucchi danno conto della grandiosità della Domus Transitoria, il palazzo dei padri dove Nerone visse insieme al patrigno Claudio e alla madre Agrippina e dove nel 54 d. C., a soli diciassette anni, fu proclamato imperatore. Detta Transitoria perché doveva consentire di "transitare" senza soluzione di continuità dalla residenza imperiale ai giardini sul colle Esquilino, la dimora sul Palatino accolse Nerone fino alla costruzione della Domus Aurea. Sempre nel Palatino è possibile ammirare un’ampia porzione della Domus Transitoria ancora in corso di scavo negli Horti Farnesiani, mentre nella vigna Barberini si può vedere dall’alto lo scavo che ha recentemente portato alla luce un ambiente che potrebbe corrispondere con la leggendaria Coenatio rotunda, la sala da pranzo rotante menzionata da Svetonio.

L’Anfiteatro Flavio, che Vespasiano fece costruire per restituire al popolo l’area su cui Nerone avrebbe voluto estendere la sua faraonica dimora, ospita le testimonianze dell’incendio scoppiato nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d. C. e quelle riguardanti la Domus Aurea nata sulle ceneri di quell’incendio. Accolti da un busto di Nerone giovanissimo, i visitatori possono ammirare in questa parte del percorso i risultati degli scavi che dal 1986 l’archeologa Clementina Panella conduce nell’area del Colosseo e del Palatino: resti di edifici, frammenti della Meta sudans augustea, suppellettili, strumenti da lavoro, ceramiche e persino un’enorme grata in ferro proveniente da una ricca dimora tutti spettacolarmente bruciati in quei fatidici nove giorni che devastarono la città.

 Un’animazione ricostruisce visivamente l’espansione dell’incendio secondo il racconto di Tacito. Nello stesso 64 d.C., torturati e crocifissi i cristiani, capro espiatorio usato da Nerone per allontanare da sé le montanti accuse di piromania, prese avvio una complessa ricostruzione che trasformò l’informe Roma precedente in una città dall’urbanistica razionale con strade ampie e spaziose, tali da scongiurare il pericolo d’incendi. E naturalmente fu l’occasione per concepire una dimora imperiale ancora più fastosa ed estesa di prima, compresa tra il Celio, il Palatino e l’Esquilino. Aurea sarebbe stata la nuova Domus di Nerone, per tutte le gemme e l’oro profuso nei molti padiglioni che la componevano. Tacito attribuisce la costruzione del lussuoso complesso a due architetti romani, Severo e Celere, mentre autore degli affreschi sarebbe stato Fabullo, informandoci inoltre che "qua esistevano laghi e pascoli, là boschi vasti e isolati, il tutto adattato con artificio in mezzo a edifici di soggiorno e di ricevimento, ninfei, terme, colonnati". Di questo immenso parco con edifici sparsi e "uno specchio d’acqua simile al mare", come ricorda Svetonio, rimasto incompiuto per la morte di Nerone avvenuta nel 68 d. C. a soli trent’anni, appena quattro anni dopo l’inizio dei lavori, i Flavi obliterarono ogni traccia, fino al totale interramento delle costruzioni ordinato da Traiano per sostenere le proprie grandiose Terme. In mostra nel II ordine del Colosseo pezzi bellissimi provenienti dal padiglione di Colle Oppio e testimonianze del lusso delle residenze di Anzio, Subiaco e Oplontis, oltre a una ricostruzione virtuale che mostra la Domus Aurea in tutta la sua ricercata complessità.  (Testo tratto dalla mostra su Nerone di qualche anno fa, a Roma)

 Ricostruzione della DOMUS AUREA neroniana

TACITO, Annales, Liber XVI,18
La vita di Petronio, elegantiae arbiter 
A proposito di C. Petronio, bisogna riprendere alcuni fatti nominati precedentemente. Infatti costui passava il giorno a dormire e di notte si dedicava ai propri impegni ed ai piaceri; e se altri erano stati elevati alla fama grazie alla propria laboriosità, costui vi era giunto grazie all'indolenza e non era considerato nè un crapulone nè un dissipatore, come accade per la maggior parte di coloro che dissipano la propria fortuna, ma un raffinato gaudente. E le sue parole ed i suoi gesti, quanto più erano liberi e mostravano per così dire indifferenza, tanto più favorevolmente erano accolti come espressione di semplicità. Tuttavia come proconsole in Bitinia e più tardi come come console si mostrò pieno di energie ed all'altezza dei suoi incarichi. In seguito, ricaduto nei vizi, oppure atteggiatosi ad uomo vizioso, fu ammesso nella cerchia dei pochi intimi di Nerone, come arbitro nelle questioni di raffinatezza, al punto che l'imperatore riteneva che nulla fosse dolce o piacevole se non quello che era stato approvato da Petronio. Da questi fatti scaturì l'odio di Tigellino, che gli si scagliò contro come se fosse un rivale e più esperto di lui nella conoscenza dei piaceri. Dunque Tigellino fece valere la crudeltà dell'imperatore - questa infatti aveva la meglio su tutte le altre sue pulsioni - e, accusando Petronio di essere stato amico di Scevino, corruppe un suo schiavo in modo da spingerlo alla delazione e sottrasse ogni possibilità di difendersi, facendo gettare in catene la maggior parte della sua servitù.
Testo originale
XVIII. De C. Petronio pauca supra repetenda sunt. Nam illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis uitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignauia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Proconsul tamen Bithyniae et mox consul uigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein reuolutus ad uitia seu uitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobauisset. Vnde inuidia Tigellini quasi aduersus aemulum et scientia uoluptatum potiorem. Ergo crudelitatem principis, cui ceterae libidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaeuini Petronio, obiectans, corrupto ad indicium seruo ademptaque defensione et maiore parte familiae in uincla rapta.

Petronio, Satyricon, prefazione Chiarini 

Seneca, il De brevitate vitae e la tematica del tempo

Seneca, il pensiero filosofico


Matteo Veronesi, I  dulcia  vitia   della scrittura di Seneca

«Il  toreador della virtù»: così, in una pagina velenosa e feroce del Crepuscolo   degli idoli,  Seneca era definito da Nietzsche, che pure in gioventù l’aveva annoverato fra i “grandi moralisti”. 

Il filosofo dell’Oltreuomo, nel momento in cui sottolineava, con la tagliente concisione dell’aforisma, il contrasto e l’incoerenza, abili e tortuosi, del personaggio e del pensatore, della vita e della parola, aveva del resto alle spalle una tradizione antisenecana che andava dall’Agostino del  De Civitate Dei al Petrarca delle Familiares, da La Rochefoucauld, che intitolava ad un “Seneca smascherato”, spogliato ormai dei suoi infingimenti e delle sue doppiezze, la prima edizione delle sue amare e disincantate Ma ssime, fino al Melville del Diario italiano, che dietro la maschera emaciata e sofferente dell’asceta intravedeva lo sguardo vitreo e protervo dell’usuraio (quale peraltro Seneca, se dobbiamo credere alla testimonianza, d’altro canto perlopiù ostile, di Cassio Dione, effettivamente fu). 

Forse non aveva tutti i torti Agostino quando, ne  De Civitate (VI, 10), lamentava, con antitesi laceranti, che Seneca, pur se spiritualmente liberato dalla filosofia, covasse i vizi che fustigava, compisse egli stesso le azioni che rimproverava agli altri, adorasse ciò che denunciava.

In effetti non mancano, nell’esperienza umana ed intellettuale di Seneca, le contraddizioni e i paradossi. Pur esaltando il distacco dalle ricchezze, fu ricchissimo (del resto, come si legge nel  De vita beata, il filosofo non deve affatto essere per forza povero, ma semplicemente non essere schiavo delle proprie ricchezze, considerarle più come un benevolo prestito della fortuna che come un possesso stabile e saldo, ed essere pronto, qualora se ne desse il caso, a  perderle senza eccessivo rammarico); pur predicando la virtù, la misura, l’equilibrio, il distacco dalle passioni, si dilettò, secondo l’uso greco, con gli efebi , sempre stando a Dione (Storia romana, LXI, 10); alla morte, nel 54, dell’imperatore Claudio, sbeffeggiò, nell’Apocolocyntosis, quello stesso sovrano che aveva esaltato in modo enfatico ed iperbolico nella Consolatio ad Polybiu, con cui tentava,  peraltro senza immediato successo, di ottenere la revoca dell’esilio inflittogli nel 41 per torbidi intrighi di palazzo.
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È forse con Seneca (e lo intuirono in molti fra i suoi lettori più attenti, da Montaigne a Rousseau) che nasce la teodicea, l’interrogazione inesausta, inesauribile, mai pienamente soddisfatta (né forse mai soddisfabile, in termini e limiti umani) sulla giustizia ultima, assoluta, trascendente. «Per alta vade spatia sublimi aetheris», dice Giasone nell’inquietante chiusa della Med ea senecana, «testare nullos esse, qua veheris, deos»: «Va’ per gli spazi profondi dell’etere sublime, / per rivelare che non ci sono dei là dove tu passi».                        (Matteo Veronesi) 

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