Vittorio Alfieri, Vita, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, (epoca III, cap. 9), pp. 96-97
Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partire verso il mezzo Maggio per la Finlandia alla volta di Pietroburgo. Nel fin d’Aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa Università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato di correre.
Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il Poeta nostro [Inf. XXXII 30]; quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e dicessi il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io volli subito tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercé, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il Lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’Italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di essere fuor del globo.
Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il Poeta nostro [Inf. XXXII 30]; quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e dicessi il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io volli subito tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercé, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il Lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’Italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi di essere fuor del globo.
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Vittorio ALFIERI (1749-1803) dai Sonetti, CLXVII (1786)
( tratto dal blog didattico QUOMODO )
Se c’è una espressione che inquadra in modo emblematico il mito schiettamente romantico del conflitto insanabile nell’uomo tra lucidità razionale e furore emotivo-affettivo, è certo il v. 11 di questo celebre autoritratto alfieriano: «la mente e il cor meco in perpetua lite».
Imitatissimo al tempo dai giovani poeti italiani, o aspiranti tali, il sonetto contiene tutti gli elementi, fisici e psicologici, destinati a fissarsi nello stereotipo dell’uomo romantico, solitario e scontroso, raffinato e scapigliato, ispirato e febbrile, sempre alla ricerca di un equilibrio nei suoi perenni conflitti col mondo e con se stesso, con l’occhio dello spirito rivolto oltre la società e la storia del presente.
Metro: sonetto: ABAB, ABAB, CDC, DCD.
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Significante. Lo schema rimico è il più semplice possibile, basato sulla pura alternanza delle quattro rime (due per la fronte e due per la sirma). Unico rilievo fonetico è la condensazione delle allitterazioni in -r- alternate alle -l- nei vv. 9-12, in corrispondenza delle contrasto fra emozioni aspre e violente e quelle miti e pacate. Quanto agli schemi interni dei versi, si noterà una propensione spiccata alla scansione binaria, quasi sempre nella forma 2x2, in tutte le combinazioni (diretta: sublime specchio / veraci detti, v. 1; duro acerbo / pieghevol mite, v. 9; chiastica: sottil persona / stinchi schietti, v. 5; anche in variatio: radi in fronte / rossi pretti v. 3), tranne i vv. 6-7 costruiti su un ritmo ternario 2x3 (bianca pelle / occhi azzurri / aspetto buono).
Significato. L’esordio, con una apostrofe allo specchio (vocativo v. 1, e imperativo v. 2) è forse l’aspetto più datato del testo, non a caso scomparso nelle riprese degli autori posteriori. Quindi segue una sezione descrittiva, composta per lo più di enumerazioni (tutte variazioni sul tema aggettivo+sostantivo), che occupa il resto delle quartine, fino alla metafora «più che un re sul trono» (v. 8), che rinvia implicitamente al tema del tiranno, un motivo ricorrente nel pensiero e negli scritti di Alfieri. Le terzine spostano l’attenzione sugli aspetti caratteriali ed emotivi, fondandosi espressivamente su una sequenza di antitesi, imperniate sull’epifonema del perenne conflitto fra mente e cor (v. 11), e confluenti nella enfatica sermocinatio del v. 14: la domanda retorica, che riprende in grande e vil le antonomasie di Achille e Tersite (v. 13), e la risposta epigrammatica, in cui la prospettiva del sonetto viene ribaltata in senso paradossale.
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