sabato 27 marzo 2021

ILLUMINISMO







http://www.treccani.it/enciclopedia/illuminismo/



(L'europa nel '700)


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CANDIDE O LA VELOCITA’
ITALO CALVINO
 (prefazione del libro  Candido  di Voltaire pubblicato da Einaudi)   
Personaggi filiformi, animati da una guizzante mobilità, si allungano, si contorcono in una sarabanda di leggerezza graffiante: così Paul Klee nel 1911 illustrava Candide di Voltaire, dando forma visuale - e quasi dire musicale - all’allegria energetica che questo libro - al di là del fitto involucro di riferimenti a un’epoca e a una cultura - continua a comunicare al lettore del nostro secolo. 

   Nel Candide oggi non è il “ racconto filosofico” che più ci incanta, non è la satira, non è il prender forma d’una morale e d’una visione del mondo: È IL RITMO. Con velocità e leggerezza, un susseguirsi di disgrazie supplizi massacri corre sulla pagina, rimbalza di capitolo in capitolo, si ramifica e moltiplica senza provocare nell’emotività del lettore altro effetto che d’una vitalità esilarante e primordiale.
   Se bastano le tre pagine del capitolo VIII perché Cunègonde renda conto di come, avendo avuto padre madre fratello fatti a pezzi dagli invasori, venga violentata, sventrata, curata, ridotta a far da lavandaia, fatta oggetto di contrattazione in Olanda e in Portogallo, divisa a giorni alterni tra due protettori di diversa fede, e così le capiti d’assistere all’autodafé che ha per vittime Pangloss e Candide e a ricongiungersi con quest’ultimo, meno di due pagine del capitolo IX sono sufficienti perché Candide si trovi con due cadaveri tra i piedi e Cunégonde possa esclamare: “Come hai mai fatto, tu che sei nato così mansueto, ad ammazzare in due minuti un giudeo e un prelato?”
ITALO CALVINO
ITALO CALVINO
   E quando la vecchia servente deve spiegare perché ha una natica sola, dopo aver cominciato a raccontare la sua vita da quando figlia d’un papa, all’età di tredici anni, nello spazio di tre mesi aveva provato la miseria, la schiavitù, era stata violentata quasi tutti i giorni, aveva visto tagliare sua madre in quattro pezzi, aveva sopportato la fame e la guerra, e moriva appestata in Algeri, deve arrivare a dire dell’assedio d’Azov e dell’insolita risorsa alimentare che i giannizzeri affamati trovano nelle natiche femminili, ebbene, qui le cose vanno più per le lunghe, ci vogliono due capitoli interi, diciamo sei pagine e mezzo.
   LA GRANDE TROVATA DEL VOLTAIRE UMORISTA è quella  che diventerà uno degli effetti più sicuri del cinema comico: L’ACCUMULARSI DI DISASTRI A GRANDE VELOCITÀ. E non mancano le improvvise accelerazioni di ritmo che portano al parossismo il senso dell’assurdo: quando la serie delle disavventure già velocemente narrate nella loro esposizione “per disteso” viene ripetuta in un riassunto a rotta di collo.
   E’ UN  GRAN CINEMATOGRAFO MONDIALE che Voltaire proietta nei suoi fulminei fotogrammi, è IL GIRO DEL MONDO IN OTTANTA PAGINE, che porta Candide DALLA VESTFALIA natia ALL’OLANDA AL PORTOGALLO ALL’AMERICA DEL SUD ALLA FRANCIA ALL’INGHILTERRA A VENEZIA IN TURCHIA, e si dirama nei giri del mondo suppletivi dei personaggi comprimari, maschi e soprattutto femmine, facili prede di pirati e mercanti di schiavi TRA GIBILTERRA E BOSFORO.
   Un gran cinematografo  dell’attualità mondiale, soprattutto: coi villaggi massacrati nellaguerra dei Sette Anni tra prussiani e francesi (i “bulgari” e gli “àvari”), il terremoto di Lisbona del 1755, gli autodafé dell’Inquisizione, i Gesuiti del Paraguay che rifiutano il dominio spagnolo e portoghese, le mitiche ricchezze degli Incas, e qualche flash più rapido sul protestantesimo in Olandasull’espandersi della sifilidesulla pirateria mediterranea e atlanticasulle guerre intestine del Maroccosullo sfruttamento degli schiavi negri nella Guiana, lasciando un certo margine per le cronache letterarie e mondane parigine e per le interviste ai molti re spodestati del momento, convenuti al carnevale di Venezia.
   Un mondo che va a catafascio, in cui nessuno si salva in nessun posto, se si eccettua l’unico paese saggio e felice, EL DORADO. La connessione tra felicità e ricchezza dovrebbe essere esclusa, dato che gli Incas ignorano che la polvere d’oro delle loro strade e i ciottoli di diamanti abbiano tanto valore per gli uomini del Vecchio Mondo: eppure, vedi il caso, una società saggia e felice Candide la trova proprio tra i giacimenti di metalli preziosi. Là finalmente Pangloss potrebbe aver ragione, il migliore dei mondi possibili potrebbe essere realtà: solo che EL DORADO è nascosto tra le più inaccessibili giogaie delle Ande, forse in uno strappo della carta geografica: È UN NON –LUOGO, UN’UTOPIA.
   Ma se questo Bengodi ha quel tanto di vago e di poco convincente che è proprio delle utopie, il resto del mondo, con le sue assillanti tribolazioni, anche se raccontate alla svelta, non è affatto una rappresentazione di maniera. “E’ a questo prezzo che voi mangiate lo zucchero in Europa!” dice il negro della Guaiana olandese, dopo aver informato dei suoi supplizi in poche righe; e la cortigiana, a Venezia: “Ah, signore, se lei potesse immaginare cos’è, dover carezzare indifferentemente un vecchio mercante, un avvocato, un frate, un gondoliere, un abate; essere esposta a tutti gli insulti, a tutti gli affronti; essere spesso ridotta a chiedere in prestito una gonna per andare a farsela togliere da un uomo ributtante; essere derubata da uno di quanto s’è guadagnato con l’altro; essere taglieggiata dagli ufficiali di giustizia, e non aver altra prospettiva che un’orrenda vecchiaia, un ospedale, un letamaio…”
   Certo i personaggi del Candide sembrano fatti di gomma: Pangloss marcisce dalla sifilide, lo impiccano, lo legano al remo d’una galera, e lo ritroviamo sempre vivo e vegeto. Ma sarebbe sbagliato dire che Voltaire sorvoli sul costo delle sofferenze: quale altro romanziere ha il coraggio di farci ritrovare l’eroina che all’inizio è “vivace di colorito, fresca, grassa appetitosa “, trasformata in una Cunégonde “inscurita, con gli occhi cisposi, il seno piatto, le guance rugose, le braccia rosse e screpolate”?
   Ci accorgiamo a questo punto che la nostra lettura del Candide, che voleva essere tutta esterna, tutta” in superficie”, ci ha riportato al centro della “filosofia”, della visione del mondo di Voltaire. Che non è di riconoscersi soltanto nella polemica con l’ottimismo provvidenzialistico di Pangloss: a ben vedere, il mentore che accompagna Candide più a lungo non è lo sfortunato pedagogo leibniziano, ma il “manicheo” Martin, il quale è portato a vedere nel mondo solo le vittorie del diavolo; e se Martin sostiene la parte dell’anti-Pangloss, non si può certo dire che sia lui ad avere partita vinta.
   Vano- dice Voltaire – è cercare una spiegazione metafisica del male, come fanno l’ottimista Pangloss e il pessimista Martin, perché questo male è soggettivo, indefinibile e non misurabile; il credo di Voltaire è antifinalistico, ossia, se il suo Dio ha un fine, sarà un fine imperscrutabile; un disegno dell’universo non esiste o, se esiste, spetta a Dio il conoscerlo e non all’uomo; il “razionalismo” di Voltaire è un atteggiamento etico e volontaristico che si campisce su uno sfondo teologico incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal.
   Se questa giostra di disastri può essere contemplata col sorriso a fior di labbra è perché la vita umana è rapida e limitata; c’è sempre qualcuno che può dirsi più sfortunato di noi; e chi putacaso non avesse nulla di cui lagnarsi, disponesse di tutto ciò che la vita può dare di buono, finirebbe come il signor Prococurante senatore veneziano, che se ne sta sempre con la puzza sotto il naso, a trovare difetti dove non dovrebbe trovare che motivi di soddisfazione e ammirazione. Il vero personaggio negativo del libro è lui, l’annoiato Prococurante; in fondo PANGLOSS E MARTIN, pur dando a domande vane risposte insensate, SI DIBATTONO NEGLI STRAZI E NEI RISCHI CHE SONO LA SOSTANZA DELLA VITA.
   La sommessa vena di saggezza che affiora nel libro attraverso marginali portavoce quali l’anabattista Jacques, il vegliardo inca, e quel savant parigino che somiglia molto all’autore, si dichiara alla fine per bocca del derviscio nella famosa morale del “coltivare il nostro orto”.
   Morale molto riduttiva, certo: che va intesa prima di tutto nel suo significato intellettuale antimetafisico: non devi porti altri problemi se non quelli che puoi risolvere con la tua diretta applicazione pratica. E nel suo significato sociale: prima affermazione del lavoro come sostanza d’ogni valore.
   Oggi l’esortazione “IL FAUT CULTIVER NOTRE JARDIN” suona ai nostri orecchi carica di connotazioni egoistiche e borghesi: quanto mai stonata se confrontata alle nostre preoccupazioni e angosce. Non è un caso che essa sia enunciata nell’ultima pagina, quasi già fuori da questo libro in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui i giardini vengono regolarmente devastati: è un’utopia anch’essa, non meno del regno degli Incas; la voce della “ragione “ nel Candide è tutta utopica.
   Ma non è neppure un caso che sia la frase del Candide che ha avuto più fortuna, tanto da divenire proverbiale. Non dobbiamo dimenticare il radicale cambiamento epistemologico ed etico che questa enunciazione segnava (siamo nel 1759, esattamente trent’anni prima della presa della Bastiglia): l’uomo giudicato non più nel suo rapporto con un bene e un male trascendenti ma in quel poco o tanto che può fare.
   E di lì derivano tanto una morale del lavoro strettamente “produttivistica” nel senso capitalistico della parola, quanto una morale dell’impegno pratico responsabile concreto senza il quale non ci sono problemi generali che possano risolversi. Le vere scelte dell’uomo d’oggi, insomma, partono di lì. 
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LA FISICA QUANTISTICA E L’ORRORE DEL VECCHIO
By Roberto Cotroneo   http://robertocotroneo.me/
   Vorrei parlarvi della paura ossessiva per tutto ciò che è vecchio, scomodando alcune affascinanti teorie della fisica moderna e partendo da un celebre libro, il Candide, dove Voltaire fa dire al suo personaggio: «Se questo è il migliore dei mondi possibili, allora dove sono gli altri?».
   Voltaire, nel 1759, l’anno in cui scrisse questo libro, non poteva conoscere David Deutsch, un fisico israeliano nato due secoli dopo, che lavora a Oxford e si occupa di computazione quantistica. Le sue teorie sono molto complesse, e comprensibili quasi solo agli specialisti, eppure entrano nelle nostre vite di tutti i giorni e condizionano il nostro futuro.
   Tutti ormai parlano abitualmente di universi paralleli. È un termine entrato nel linguaggio comune che semplifica moltissime teorie fisiche: a cominciare dalla teoria delle stringhe, dove si ipotizza che il nostro universo sia solo uno dei tanti. E che tutti gli universi sono paralleli, e dunque vivono di logiche proprie. Se stai in un universo, non puoi accedere a un altro.
   Questa teoria della fisica è forse quella più vicina a certi temi della letteratura su cui hanno scritto autori che amiamo molto. Due nomi su tutti: Jorge Luis Borges e Italo Calvino. In realtà i fisici negli ultimi decenni sono ossessionati dalla formulazione scientifica di quella che chiamano, con un acronimo inglese, “MWI”, ovvero: Many Worlds Interpretation. La teoria a molti mondi.
   Si chiedeva Candide: dove sono gli altri mondi? Un tempo si sarebbe detto che sono altrove e non ci arriveremo mai. Oggi, attraverso continui esperimenti sulla curvatura della luce, sappiamo che si trovano delle fenditure, dei passaggi, che permettono una sorta di comunicazione.
   Tutto questo si trova anche in un saggio di Deutsch, pubblicato in Italia da Einaudi nel 1997: La trama della realtà. E si può leggere, in forma narrativa, in libri come Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, o in un racconto come Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.
   Ma soprattutto si può vedere nel modo che abbiamo di utilizzare il web. E nella nostra incapacità di percepire il vecchio e il nuovo.
   E siamo arrivati al punto. Il concetto di vecchio, fino a poco tempo fa, era strettamente connesso al decadimento e all’esaurimento di un corpo, di un oggetto, di una tecnologia. Qualcosa di vecchio è qualcosa che ha perso funzionalità ed efficacia a causa del tempo. Poi la moda, attraverso l’estetica moderna, ha spostato il vecchio in un’altra dimensione: in quella del già assimilato. Così il vecchio è diventato abitudine, non più inadeguatezza.
   Come se, facendo un paragone cosmologico, l’universo invecchiasse per ripetitività e non per esaurimento della sua energia. Ma proprio perché il vecchio ha perso la sua reale funzione, abbiamo inventato il vintage, ovvero il riprendere cose che hanno qualità, energia e realtà, ma che erano finite in una sorta di MWI delle abitudini e del già visto, in quell’universo multiverso.
   Le tecnologie invecchiano quando sono inadeguate. Ma a cosa? Forse a diversi universi che interferiscono con il nostro? Tutti  abbiamo amici che usano ancora un vecchio modello di computer, o un cellulare d’altri tempi, dicendo che va benissimo. E tutti abbiamo amici che dicono di non sentir alcun bisogno di stare su un social network. Ma noi che facciamo l’opposto non siamo più avanti. E loro non sono vecchi. Siamo su mondi diversi, nel senso vero della parola.
   Ed ecco spiegata la nostra ossessione per il superato, per il vecchio. Ci sorprende che ciò che siamo stati sopravviva altrove. E non possiamo rientrare in contatto con il nostro universo parallelo se non attraverso i sogni o attraverso percezioni indefinite e tutte ancora da teorizzare.
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LA NARRATIVA FILOSOFICO-ALLEGORICA
   La narrativa filosofica, in particolare nella forma del romanzo, nasce nell’ambito della cultura dell’Illuminismo, che si serve di questa forma espressiva così duttile e così popolare per far circolare le nuove idee politiche, sociali e morali.
   Attraverso l’invenzione fantastica e la descrizione di situazioni spesso paradossali, dalla forte carica simbolica e didascalica, gli autori del Settecento espongono la propria posizione aspramente critica nei confronti della società contemporanea; questa appare spesso trasfigurata all’interno di scenari e ambientazioni esotici o inverosimili, ma è sempre ben riconoscibile nelle sue contraddizioni e nelle sue storture. I diversi momenti dell’evoluzione di questo genere romanzesco si possono sintetizzare nelle seguenti tappe.
   Nell’ambito dell’Illuminismo francese vanno ricordati soprattutto i quattro “contes philosophiques(racconti filosofici) di Voltaire, che hanno come protagonisti un extra-terrestre (Micromegas), un antico babilonese (Zadig), un giovane francese allevato da una tribù di pellirosse (L’ingenuo), un ragazzo sprovveduto e tenacemente ottimista circa il destino umano (CANDIDO): si tratta di personaggi-limite, che consentono all’autore di riflettere sulla condizione esistenziale dell’uomo e sulle regole della società civile.
   Nella letteratura inglese del Settecento il testo più importante è I VIAGGI DI GULLIVER di J. Swift, resoconto delle avventure vissute dal protagonista in paesi immaginari che offrono lo spunto all’autore per condurre una critica feroce di tutti i valori della società contemporanea, dalla politica alla religione, alla scienza; un’altra opera significativa è Vita e opinioni di Tristram Shandy, di L. Sterne, una sorta di antiromanzo, privo di una vera trama narrativa, costruito su digressioni, incisi, appelli al lettore, attraverso cui l’autore affronta i più disparati argomenti.
   Nell’Ottocento l’esempio più notevole di narrazione allegorica è da individuare in MOBY DICK di H. Melville, che nella lotta tra il protagonista e il mostro marino che lo ossessiona mette in scena l’eterno conflitto tra il bene e il male nella mente dell’uomo.
   Nel Novecento il tedesco H. Hesse ripropone la narrativa filosofica in varie opere che hanno come protagonisti personaggi esemplari della condizione umana, da SIDDHARTA a NARCISO E BOCCADORO. In Italia I. Calvino ha offerto, soprattutto con i romanzi della trilogia I nostri antenati, una rivisitazione particolarmente efficace del modello settecentesco.
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IL SETTECENTO IN ITALIA: MILANO
L’epoca settecentesca assiste ad una vera rinascita milanese, dopo il periodo buio della dominazione spagnola. Arrivano gli Asburgo (nel 1706 gli austriaci avevano infatti soppiantato gli iberici nel dominio della città) e Milano si trasforma nel centro culturale del movimento Illuminista. Nascono i caffè letterari, dove gli intellettuali si ritrovano per discutere le sorti della città e del territorio, e nel 1761 nasce l’Accademia dei Pugni, insieme a quella dei Trasformati. Rivoluzioni anche dal punto di vista urbanistico: il Teatro alla Scala, Palazzo Greppi e Palazzo Belgioioso sono, per dare un’idea, proprio di questo secolo, voluti dalla regina Maria Teresa d’Austria.

La letteratura contro la tortura

“Tanto è antica la contraddizione a questa barbara costumanza (la tortura) quanto lo è antico il ragionare e l’aborrire le inutili crudeltà”.
Questa citazione dell’opera di Pietro Verri riassume esattamente quanto si dirà in questo paragrafo. Nonostante la tortura sia un fenomeno così affermato c’è tutta una vastissima letteratura che ci testimonia come in ogni epoca ci siano state critiche a questa usanza.
Continuando con le citazioni, è proprio attraverso lo scritto di Verri (il cui nome è inciso a chiare lettere nella storia della critica alla tortura) che apprendiamo che già Cicerone nell’orazione Pro Silla si schierava contro i trattamenti crudeli “La tortura è dominata dallo spasimo, governata al temperamento di ciascuno sì d’animo che di membra, la ordina il giudice, la piega il livore, la corrompe la speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane alla verità”. La lista di nomi illustri continua con Sant’Agostino il quale nel libro 19 c.6 del De Civitate Dei tratta dell’orrore degli umani giudizi quando la verità è nascosta. Ancora, abbiamo Quintiliano (Instit. Orat. Libro V cap IV), il già citato Seneca “etiam innocentes cogit mentiri” (il dolore spinge gli innocenti a mentire) e Valerio Massimo (libro III cap. III e libro VII cap. IV) .
Il Verri si preoccupa di aggiungere che neanche tra i criminalisti non mancò chi si schierò contro la tortura, e procede anche qui con un elenco di nomi di uomini “più ragionevoli e colti che detestarono l’uso de’ tormenti”.
Nonostante i nomi illustri di cui sopra della storia, della giurisprudenza e della letteratura, si ricordano altri nomi altrettanto importanti per quanto riguarda questo argomento, come ad esempio quelli di Beccaria, Voltaire, Manzoni, Montesquieu e naturalmente il già citato Verri. Questi autori si collocano all’interno di un filone di pensiero dai contorni ben definiti.
Le opere di questi scrittori e pensatori del XVIII sec. sono assolutamente diverse tra loro, ma si caratterizzano per essere tutti scritti dal rilevantissimo valore sociale e culturale. Per cominciare Cesare Beccaria nel suo celeberrimo scritto “Dei Delitti e delle pene” dedica l’intero capitolo XVI alla inutilità e alla ceca crudeltà della tortura, ma soprattutto alla totale assenza di funzione sociale e giuridica che riveste la pratica: “Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, nè la società può toglierli la pubbliva protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata.” E ancora “Qual è il fine politico delle pene?” Tutti interrogativi assolutamente attuali, che ancora oggi sono fonte di grande riflessione e che sono anche alla base del disegno di legge che se approvato, introdurrà anche in Italia il delitto specifico di tortura.
Il testo del Beccaria è molto esplicito nella sua critica, la quale si articola in tre punti diversi, come fossero tre motivi per cui la tortura non dovrebbe essere più praticata. Si parte dell’idea che la tortura non sia un valido strumento per scoprire la colpevolezza di un uomo “....quasi che il criterio della verità risieda nelle fibre e nei muscoli di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.”. Proseguendo nella lettura si apprende lo sconcerto reale nell’autore nel constatare come nel diciottesimo secolo la tortura fosse ancora una pratica tanto in voga e come il suo utilizzo fosse in realtà dettato da una erronea lettura delle credenze religiose “Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira eterna del grand’Essere, debbano da un fuoco incomprensibile essere purgate...”. Il terzo motivo di critica è quello per il quale alla fine sono gli innocenti che pagano sempre anche per colpe non commesse, in quanto a differenza dei colpevoli hanno molto più da perdere, poiché se il colpevole è forte può sopravvivere alle torture e apparire senza colpe, mentre l’innocente comunque, anche nel caso di sopportazione delle sofferenze, avrà patito inutilmente. L’analisi del Beccaria è molto interessante soprattutto in quanto la sua opera è stata posta alla base della stesura dei diversi disegni di legge del Parlamento italiano per l’introduzione nel reato di tortura nel nostro codice penale. La sua importanza risiede, quindi, soprattutto nel permetterci di evidenziare quali siano le basi su cui si fonda la concezione dottrinale e giurisprudenziale della fattispecie della tortura nel nostro ordinamento.
Diversa è l’opera di un altro autore italiano Pietro Verri che con la sua opera, “Osservazioni sulla tortura”, ha dato un quadro più complesso e organico alle denuncie già chiare nello scritto del Beccaria. Le “Osservazioni” hanno un carattere innanzi tutto più specifico, ma fondamentalmente molto simile alla produzione del Beccaria.

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