Parole chiave del medio evo:
Età di mezzo?
invasioni barbariche
feudalesimo
cattolicesimo
castelli e conventi
passaggio dal latino ai volgari
nascita delle letterature nazionali
codificazione dei generi letterari
spopolamento delle campagne, urbanizzazione
Impero
liberi Comuni
cattedrali: affreschi e vetrate
allegoria
predicazione
pellegrini
mercanti
senso del peccato e mortificazione del corpo
"nascita" del purgatorio
Peste
Parole chiave dell'Umanesimo
Signorie
Banche
Da Dio... all'Uomo
Il libro e la trasmissione del sapere
" Homo sum; nihil humani a me alienum puto" (Terenzio, II sec A.C.)
Da Treccani.it:
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Il Discorso sulla dignità dell'uomo di Pico della Mirandola (1463-1494) è considerato il «Manifesto del Rinascimento». Scritto nel 1486, contiene infatti l'esaltazione della creatura umana, come creatura libera e capace di conoscere e dominare la realtà intera. Ancor più di questo però il Discorso parla del compito della creatura umana: questa, priva di immagine predeterminata, deve perseguire la propria compiutezza con un percorso che muove dall'autodisciplina morale, attraversa la pluralità delle immagini e dei saperi, e tende alla meta più alta, non rappresentabile. Pico della Mirandola ritiene che questo paradigma di sviluppo dell'esistenza sia universale, perché rintracciabile in tutte le tradizioni.
L' esordio:
"Ho letto, negli scritti degli arabi, padri venerandi, che Abdallah Saraceno, essendo gli stato domandato che cosa in questa sorta di scena del mondo gli apparisse più ammirevole, rispose che nulla gli appariva più ammirevole dell'uomo. Con questo si accorda il detto di Mercurio: «Grande miracolo è l'uomo»"
Ricordiamo le parole con cui Dio si rivolge alla sua creatura:
Stabilì infine l'ottimo artefice che a colui, cui non poteva dare nulla di proprio, fosse comune tutto quanto era proprio dei singoli. Prese dunque l'uomo, opera di immagine indefinita, e postolo nel centro del mondo così gli parlò: « Non ti abbiamo dato, o Adamo, né una sede determinata, né aspetto peculiare, né alcuna funzione speciale, affinché tu possa ottenere e possedere secondo il suo desiderio e consiglio quella sede, quell'aspetto, quella funzione che ti sarai scelto. La natura definita degli altri è costretta entro leggi da noi prescritte. Tu, non costretto da alcuna angustia, la definirai secondo il tuo arbitrio, cui ti ho affidato. Ti ho posto nel mezzo del mondo, perché di là potessi, guardandoti intorno, scorgere meglio tutto ciò che è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa tranquillamente darti la forma che vuoi, come libero e sovrano scultore e artefice di te stesso. Potrai degenerare negli esseri inferiori, i bruti; potrai rigenerarti, se lo vorrai, nello cose superiori, divine»_________________________________________________
IL QUATTROCENTO – OSSERVA FRANCESCO DE SANCTIS NELL’INTRODUZIONE AI “LIBRI DELLA FAMIGLIA” DI LEON BATTISTA ALBERTI – È UN SECOLO DI GESTAZIONE ED ELABORAZIONE. È IL PASSAGGIO DALL’ETÀ EROICA ALL’ETÀ BORGHESE, DALLA SOCIETÀ CAVALLERESCA ALLA SOCIETÀ CIVILE, DALLA FEDE E DALL’AUTORITÀ AL LIBERO ESAME, DALL’ASCETISMO E SIMBOLISMO ALLO STUDIO DIRETTO DELLA NATURA E DELL’UOMO.
Il secolo ha tendenze varie e spiccate, ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza c’è solo questo di chiaro e distinto: che la perfezione è nei classici e che in quel modello bisogna conformarsi»1 .Leon Battista Alberti, «un uomo – secondo lo stesso De Sanctis citato sopra – che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciare tutto il Quattrocento: […] pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato» , era nato nel 1404, agli albori del XV secolo, il secolo in cui principiava la grande stagione dell’umanesimo italiano.
Dopo la pace di Lodi, 1451, l’ immobilismo politico degli stati italiani favorirà invece il processo di decadimento sociale dell’Italia col progressivo distacco tra il potere e i sudditi e nulla faranno gli intellettuali per colmare questa lacuna; anzi gli umanisti italiani, rinunciando al loro compito di mediazione e ormai inseriti negli organismi governativi, si trasformeranno in cortigiani, distaccandosi così dalla vita politica. L’equilibrio tra gli stati concluso a Lodi garantirà però l’affermazione degli ideali del Rinascimento.
La morte di Lorenzo il Magnifico (1492) chiuse il periodo dell’equilibrio: l’Italia aprì di nuovo le porte agli stranieri; la discesa nella Penisola del re di Francia Carlo VIII preluse alle «horrende guerre» d’Italia. Continuava però la grande stagione del Rinascimento italiano, mentre l’Europa guardava alle nuove conquiste oltre Atlantico.
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Il lemma corte
si rifà al latino medievale cortis, curtis, (a sua volta derivato dal latino classico cohors,"cortile", ma anche "coorte", "stuolo", "corteo") indicante il comprensorio territoriale sito attorno al castello del feudatario: nel corso del Medioevo, a questo significato originario si sovrappone quello corrispondente al provenzale cort, propriamente il luogo di raduno dei nobili attorno al loro signore. Il significato di corte si sovrappone, negli usi latini classici e moderni, anche ad altri due termini anch'essi latini: curia, in quanto "edificio ove si radunano cittadini illustri", e aula, intesa nel senso traslato di "reggia": "Fraus sublimi regnat in aula" (Seneca, Phaedra: "la perfidia regna nelle corti dei potenti");curialis e aulicus sono, dunque, sinonimi di "cortigiano". Questi significati si trasferiscono negli usi volgari: "è il luogo più spazioso del palazzo, che alcuni lo chiamano cortile" (Alunno, La fabrica del mondo, p.146); "La corte è una unione di uomini di qualità alla servitù di persona segnalata, e principale, [...] la corte [è] gran maestra del vivere umano, sostegno della politezza, scala dell'eloquenza, teatro degli onori, scala delle grandezze e campo aperto delle conversazioni e dell'amicizie [...], e, per dirla in una parola sola, di tutte le cose più onorate, e degna in tutta la fabbrica del mondo, nel quale si fonda e afferma ogni nostro oprare e intendere" (Ripa, Iconologia, p.145). La corte diventa il paradigma culturale della società aristocratica di Antico regime: è anzi il luogo "rinascimentale" per antonomasia, dove è possibile produrre e scambiare arte e poesia, grazie alla liberalità e magnificenza del Principe. Ma soprattutto la corte è il luogo visibile, e simbolico, del potere: è la casa del Principe e della sua famiglia. Tutto si svolge a corte: il governo dello stato, nelle sue decisioni politiche (ma anche di giustizia) e nelle trattative diplomatiche; gli intrattenimenti e gli svaghi che scandiscono il tempo quotidiano della corte in quanto tempo della sua civile conversazione e della esemplare sua virtù (tornei, feste, spettacoli, danze, banchetti, musica, teatro, giochi, feste, esibizione dei buffoni, eccetera); le iniziative di promozione e committenza della cultura e delle arti. La corte è il luogo dove trovano lavoro competenze diverse: sia per le esigenze ordinarie della sua vita domestica di ogni giorno (amministratori, maggiordomi, vivandieri, cuochi, guardarobieri, servitori di vari livelli, stallieri, maniscalchi, eccetera: in funzionale ordinamento gerarchico), sia per le necessità istituzionali del suo buon governo (funzionari, diplomatici, magistrati, segretari, eccetera), sia per le attività culturali (istitutori dei figli del principe, letterati, musicisti, danzatori, scenografi, attori, buffoni, eccetera). Per queste funzioni la corte recluta e assume un numero notevole di umanisti, prima, e scrittori poi: tra Quattrocento e Cinquecento sono chiamati alla carica di segretario personale del principe (o del cardinale) insigni letterati. Sin dal Medioevo, la corte ha un'altra faccia: è il luogo dove si concentrano i peggiori vizi, quali l'adulazione, l'invidia, la piaggeria, la corruzione, la lussuria, l'infedeltà, eccetera; e i cortigiani sono la feccia dell'umanità ("Cortigiani vil razza dannata …", griderà ancora Rigoletto nell'opera di Giuseppe Verdi, in prima rappresentazione nel 1851). Questa topica tradizione anticortigiana affiora in tante altre opere: ad esempio, in Ariosto ("So ben che dal parer dei più mi tolgo / che ‘l stare in corte stimano grandezza, / ch'io pel contrario a servitù rivolgo",Satire, III, vv. 28'30). Efficace è anche questo pensiero di Guicciardini: "Chi sta in corte de' principi e aspira a essere adoperato da loro, stia quanto può loro innanzi agli occhi, perché nascono spesso faccende che, vedendoti, si ricorda di te e spesso le commette a te; le quali, se non ti vedessi, commetterebbe a un altro" (Ricordi, 94). Sin dal 1584 Torquato Tasso progetta un dialogo sul tema della corte, e lo completa nel 1587 con il titolo Il Malpiglio, overo de la Corte, dove rielabora e compendia la tradizione discorsiva sulla corte, in positivo e in negativo: "F. N.: Quelle cose medesime dunque le quali acquistan la benevoglienza de' principi, generan l'invidia cortigiana: laonde, non si potendo l'una e l'altra conseguire, non ci dobbiam curar d'essere invidiati de la corte, o non conviene con tanto studio ricercar la grazia de' signori" (I 43); "F. N.: La corte dunque è congregazion
d'uomini raccolti per onore" (I 55); "F. N.: "tanto dovrebbono esser partecipi de la prudenza e de le maniere laudevoli de la corte, quanto bastasse a farli più cari al principe e a ciascun altro" (I 171). (Paola Cosentino)
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TESTI PER UNA LEZIONE SU Il ‘sogno’ dell’Umanesimo civile
(a cura del prof. Alessandro Roffi)
Coluccio Salutati (1331-1406), Epistola:
È un detto di Platone, anzi della
stessa filosofia, che i sapienti debbono occuparsi dello Stato perché i
malvagi e i disonesti non s’impadroniscano del timone abbandonato con danno e
rovina dei buoni... Io vorrei che tu vivessi...facendo del bene a molti, senza
vivere solo per te, ma per la patria, per i parenti e gli amici.
Leon Battista Alberti (1404-1472): crisi e riproposizione del ‘sogno’ dell’Umanesimo
De commodis
litterarum atque incommodis:
- Occorre che [i
letterati]...abbiano seppellito i doni della gioventù, la dolcezza
dell’età, il fiore della vita, e ogni cosa, opportunamente, tra le carte e
le pecore morte ed essicate (per così chiamare i libri) [«inter chartas et
mortuas pecudes (ut sic libros noncupem) habere sepultum oporteat»].
- Occorre che essi [i letterati]
siano colà chiusi, come in un carcere perpetuo...
- O mio caro studioso,
profondamente occupato nelle lettere, nascosto tra i libri, e continuamente
sepolto tra le carte [inter libros involutus atque inter chartulas
sempiterne sepultus fueris], di certo mai gusterai né piena gioia né gradevole
letizia.
- Tuttavia il piacere dei letterati
è di un tale genere, da poterlo più propriamente chiamare dolore che
piacere. Stare continuamente seduto, leggere senza interruzione, riflettere da
mattina a sera, stare perennemente solo [perpetuo esse in solitudine]...
Apologi, XIX:
Il
libro, nel quale era stata scritta ogni sapienza libraria, chiedeva aiuto per
non essere divorato dal topo. Il topo sghignazzò. |
Liber,
in quo omnis ars libraria esset perscripta, opem petebat ne a sorice
abroderetur. Irrisit sorex. |
Defunctus
(dalle Intercenales)
Politropo:
Avanti letterati... rovinatevi negli studi, componete libri, continuate
in questa vostra opera poderosa e irrefrenabile, per fare in modo che ai bottegai
e ai profumieri non manchino mai carte scritte in maniera elegante ed
accurata per incartarci pesci ed unguenti!
Neofrono:
(grazie al colloquio con Politropo) ho capito che sono stati completamente
inutili e buttati via tutti questi giorni spesi negli studi, come lo sforzo
intellettuale profuso nello scrivere libri.
De commodis:
i
letterati...
vedono nella loro vita interamente trascurare quelle cose che sono del
tutto necessarie ad un vivere bene e felice [«litteratos... quos plane videant circa vite
usum ea negligere que ad bene beateque vivendum admodum necessaria sunt
»].
cfr: Cicerone, De officiis I 6, 19: occuparsi della filosofia per «bene beateque
vivere»; Cicerone è ripreso da Petrarca ad esempio in De vita solitaria II 12: occuparsi della
filosofia «ad bene beateque vivendum».
Definizione di un nuovo sapere
De re aedificatoria, prologo:
Multas
et varias artes, quae ad vitam bene beateque agendam faciant, summa
industria et diligentia conquisitas nobis maiores nostri tradidere. |
Molte e varie arti, che
servono a vivere bene e beatamente, acquistate con sommo lavoro e
diligenza, i nostri antenati le tramandarono a noi. |
Libri
de familia III:
Molte
cose di questo mondo meglio per pruova si conoscono che per giudicio e
prudenza, e noi uomini non gastigati dalle lettere, ma fatti eruditi
dall’uso e dagli anni, e’ quali a tutto l’ordine del vivere abbiamo e
pensato e distinto quale sia il meglio, non dubitare, possiamo in bene molte
cose con la nostra pratica forse più che a voi altri litterati non è licito
colle vostre sottigliezze.
Theogenius: Sempre meco stanno uomini
periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e
occuparmi a molta notte ragionando.... Se m’agrada conoscere le cagioni e
principi di quanto io vedo vari effetti prodotti della natura, s’io desidero
modo a discernere el vero dal falso, el bene dal male, s’io cerco conoscere
me stesso... non a me mancano i santissimi filosofi, apresso de’ quali io
d’ora in ora a me stessi satisfacendo me senta divenire più dotto anche e
migliore.
Libri
de familia II:
Pertanto
così mi pare da credere sia l’uomo nato, certo non per marcire
giacendo, ma per stare faccendo.
TESTI PER UNA LEZIONE SU "Il dialogo con i
libri"
(a cura del prof. Alessandro Roffi)
Cicerone, Pro Archia VII 16:
hanc
animadversionem humanissimam ac liberalissimam iudicaretis... et haec studia
adulescentiam agunt, senectutem oblectant, secundas res ornant, adversis
perfugium ac solacium praebent, delectant domi, non impediunt foris,
pernoctant nobiscum, peregrinantur, rusticantur |
voi
dovreste giudicare questa occupazione dello spirito [gli studi e la lettura
dei testi] come la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino...
questi studi sono di stimolo ai giovani, costituiscono un godimento per i
vecchi, rendono più belli i momenti felici, offrono rifugio e conforto in
quelli dolorosi, in casa ci danno gioia, fuori non sono d’impaccio, passano in
veglia la notte con noi, ci accompagnano nei viaggi e con noi tascorrono in
campagna la villeggiatura |
Francesco
Petrarca,
Fam. III
...
una inexplebilis cupiditas me tenet, quam frenare hactenus nec potui
certe nec volui... Expectas audire morbi genus? libris satiari nequeo...
libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam
nobis atque arguta familiaritate iunguntur. |
Io
sono dominato da una passione insaziabile, che fino ad oggi non ho
potuto né voluto frenare... Vuoi tu sapere di che malattia si tratti? non
mi sazio mai di libri... I libri dilettano nel fondo dell’animo,
parlano con noi, ci consigliano e con noi si uniscono con viva e vivace
familiarità. |
E tu, se davvero mi vuoi bene, a qualcuno dei tuoi colti amici dà quest’incarico: che vadano in cerca per la Toscana, frughino negli scaffali de’ religiosi e degli altri uomini studiosi, se possa uscirne fuori qualcosa che valga non so se ad acquietare o ad acuire la mia sete... Sappi ch’io ho fatto la stessa preghiera ad altri amici in Inghilterra, in Francia, in Spagna.
L’oblio dei libri del passato e l’età delle scoperte
Francesco Petrarca, Familiare XXIV
Itaque
librorum aliqui, nescio quidem an irreparabiliter, nobis tamen qui nunc
vivimus, nisi fallor, periere: magnus dolor meus, magnus seculi nostri pudor,
magna posteritatis iniuria. |
E
così alcuni libri, non so se irreparabilmente, tuttavia sicuramente per noi
che viviamo ora, se non sbaglio, si persero: grande dolore per me, grande
vergogna del nostro tempo, grande ingiustizia per la posterità. |
Guarino
Guarini detto Guarino Veronese (1374-1460),
epistola al figlio Niccolò:
Nam
sicut infeliciter olim nobiscum actum erat, ut ad ineuntes usque annos
nostros tantopere studia ipsa humanitatis obdormissent iacentis in
tenebris, ut in avitus ille romanae facundiae lepos suavissimusque
scribendi flos emarcuisset et nescio quae «sartago loquendi venisset
in linguas», unde acerbata erat oratio: sic aetas haec «felix sorte sua»... |
Infatti,
come noi fummo sfortunati – a tal segno, fino ai tempi nostri, gli studi
umanistici giacquero prostrati in un sonno tenebroso, e il famoso
sapore dell’eloquio latino, e la fiorita eleganza dello scrivere avevano
perduto ogni splendore, e non so qual ruggine impediva il linguaggio
rendendolo aspro -; così l’età presente gode di un felice destino. |
Poggio Bracciolini (1380-1459),
epistola a Guarino Veronese del 15 dicembre 1416:
È
solo il discorso, quello per mezzo del quale perveniamo ad esprimere la
virtù dell’animo distinguendoci dagli altri animali. Bisogna quindi essere
sommamente grati sia agli inventori delle arti liberali, sia soprattutto a
coloro che, con le loro ricerche e la loro cura, ci tramandarono i precetti
del dire... E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi
nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed
eccellente fu M. Fabio Quintiliano... Ma presso di noi italiani era così
lacerato, mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si
riconosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo... Era penoso, e a mala
pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì grande,
tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la
pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra
diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica
bellezza e la perfetta salute... che devono fare i dotti, e soprattutto gli
studiosi di eloquenza, ora che noi abbiamo richiamato, non dall’esilio, ma
quasi dalla morte stessa, tanto era lacero e irriconoscibile, questo
singolare ed unico splendore del nome romano, estinto il quale restava solo
Cicerone? E infatti, per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai
necessariamente vicino al giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che
quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno di qualità, pieno di arguzia,
non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore
del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido
come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida e i capelli
pieni di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di
essere destinato a un’ingiusta condanna. Sembrava tendere le mani, implorare
la fede dei Quiriti, che lo proteggessero da un ingiusto giudizio; e
indegnamente colui che una volta col suo soccorso, con la sua eloquenza, aveva
salvato tanti, soffriva ora, senza trovar neppur un difensore che avesse pietà
della sua sventura, che si adoperasse per la sua salvezza, che gli impedisse di
venire trascinato a un ingiusto supplizio. Un caso fortunato per lui, e
soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio
di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto recluso.V’è infatti,
vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò
mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi
fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe
lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché
tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella
biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed
oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero
neppure dei condannati a morte.
Giovanni Bessarione (1403-1472), lettera per il dono
della sua biblioteca a Venezia (1468):
Fin
dalla più tenera età mi adoperai senza risparmiare fatiche, cura, impegno
per procurarmi libri in ogni genere di discipline... i libri sono pieni
delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi.
Vivunt,
conversantur loquunturque nobiscum, docent nos, instruunt, consolantur, resque a memoria nostra
remotissimas quasi praesentes nobis exhibent, et ante oculos ponunt. Tanta
est eorum potestas, tanta dignitas, tanta majestas, tantum denique numen, ut
nisi libri forent, rudes omnes essemus atque indocti, nullam fere
praeteritarum rerum memoria, nullum exemplum. |
Vivono,
discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presentire
ponendocele sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto
grande è il loro potere, la loro dignità, la loro maestà, e, infine, la loro
santità che, se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti,
senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio. |
Pier PaoloVergerio (1370-1444), De ingenuis moribus et liberabilibus studiis aduliscentiae:
Liberalia igitur studia vocamus,
quae sunt homine libero digna: ea sunt, quibus virtus ac sapientia
aut exercetur aut quaeritur, quibusque corpus aut animus ad optima
quaeque disponitur... |
Io
chiamo liberali quegli studi che convengono a uomo libero, per
i quali si esercita o si coltiva la virtù e la sapienza, e il corpo e
l’animo ad ogni miglior bene si educa... |
Leonardo
Bruni (1370/4-1444),
Epist. VIII VI:
in cognitione earum rerum, quae pertinent ad
vitam et mores, quae propterea humanitatis studia nuncupantur, quod
hominem perficiant atque exornent |
gli studi: “ad ottenere la scienza di quelle cose
che riguardano la vita e i costumi; studii, questi, che si chiamano di
umanità, perché perfezionano ed adornano l’uomo” |
Licet
enim iuris civilis studium vendibilius sit, utilitate tamen et dignitate
longe ab istis studiis superatur.
Nam studia quidem ista ad faciendum virum bonum tota contendunt, quo
nihil utilius excogitari potest; ius autem civile ad faciendum virum
bonum nil pertinet. |
Per
quanto, infatti, lo studio del diritto civile sia più commerciabile, esso è,
per dignità e proficuità, superato dalle lettere. Esse infatti tendono a formare l’uomo buono, del quale niente
può pensarsi di più utile; il diritto civile, invece, in nulla
contribuisce a rendere buono l’uomo. |
Lorenzo
Valla (1405-1457),
prefazione alle Elegantiae:
linguam
Latinam...optimam frugem et vere divinam, nec corporis sed animi
cibum... Haec enim gentes illas populosque omnes omnibus artibus, quae liberales
vocantur, instituit; haec optimas leges edocuit; haec viam ad omnem
sapientam munivit. |
la
lingua latina...messe ottima e puramente divina, cibo non del corpo
ma dell’anima...Fu essa, infatti, che educò quelle genti e tutti i popoli
nelle arti liberali; fu essa che insegnò loro ottime leggi, che
preparò la strada ad ogni sapienza. |
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LEON BATTISTA ALBERTI,
I LIBRI DELLA FAMIGLIA
I libri della famiglia di Leon Battista Alberti sono una discussione sull’educazione dei figli, sulla funzione paterna, sul rapporto fra giovani e anziani, ma anche sull’amore e sul matrimonio, sulla gestione del patrimonio, e infine sull’amicizia, sull’utilità degli studi letterari, sulla necessità dell’impegno civile. Una summa del pensiero umanistico calato nella vita di tutti i giorni. Che ci fa capire molte cose della filosofia e della letteratura di quel periodo, ma soprattutto ci fa entrare nella società italiana del Quattrocento come nessun altro testo coevo.
Il lettore ha qui, dinanzi a sé, un libro che dopo piú di cinque secoli d'esistenza contiene ancora un suo messaggio. Esso mostra come un impianto logico possa assumere il rigore di un'opera architettonica; come, dal materiale piú grezzo che possa trarsi da un ceto tutto materiale, in cui - come dice lo stesso Alberti - «ogni pensiero s'argomenta ad acquistare, ogni arte si stracca in congregare molte ricchezze», sia possibile ricavare altissimi prodotti intellettuali; come un testo, allorquando esso sia intrinsecamente intelligente, sia sempre disponibile per la rinnovata curiosità del lettore d'ogni tempo, alla condizione di non sovrapporvi etichette che inevitabilmente ne falsano il senso e il fine. (dall'introduzione di Ruggiero Romano e Alberto Tenenti per l'edizione Einaudi)
TESTO INTERO DEL DE FAMILIA: http://www.vicoacitillo.it/biblio/familia.pdf
Leon Battista Alberti - Appello ai giovani
Et voi giovani, quanto fate, date molta opera agli studii delle lettere; siate assidui, piacciavi conoscere le cose passate et degne di memoria, giovivi comprendere e buoni et utilissimi ricordi, gustate el nutrirvi l’ingegno di leggiadre sententie, dilèttivi ornarvi 1’animo di splendissimi costumi, cercate nell’uso civile abbondare di maravigliose gentilezze, studiate conoscere le cose umane et divine, quali con intera ragione sono accomandate alle lectere. Non è sì soave né sì consonante coniunctione di ’voci et canti che possa agguagliarsi alla concinnità ed elegantia d’uno verso d’Omero, di Virgilio o di qualunque degli altri [optimi] poeti. Non è si dilectoso né si fiorito spatio alcuno, quale in sé tanto sia ameno et grato quanto la oration di Demostene, o di Tulio, o Livio, o Xenofonte, o degli altri simili soavi et da ogni parte perfectissimi oratori; niuna è sì premiata fatica, se fatica si chiama piuttosto che spasso et ricreamento d’animo et d’intellecto, quanto quella del leggere et rivedere buone cose assai: tu n’esci abbundante d’exempli, copioso di sententie, richo di persuasione, forte d’argumenti et ragioni: fai ascoltarti, stai tra cittadini udito volentieri, miranoti, lodanoti, amanoti. Non mi stendo, che troppo saria lungo recitare quanto siano le lettere non dico utili, ma necessarie a chi regge et governa le cose: né descrivo quanto elle siano ornamento alla repubblica... S’egli è cosa alcuna o che stia benissimo colla gentilezza o che sia ornamento alla vita degli uomini o che dia molto utile alle famiglie, certo le lettere sono quelle senza le quali non si può stimare in alcuno essere felice vita, senza le quali non si può pensare compiuta et ferma alcuna famiglia.
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Leon Battista Alberti, grande architetto (suo il Duomo di Rimini, ad es) è anche elemento importante della visione umbratile e immaginativa dell'Umanesimo, con i suoi dialoghi INTERCENALES (ad es quello sul sogno e sul viaggio sulla luna....) e con il MOMUS....
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POSSIBILE VERIFICA: RISCRITTURA DEGLI INSEGNAMENTI AI GIOVANI IN CHIAVE MODERNA E PERSONALE
IL GENERE DEL DIALOGO SU TEMA DATO CON PERSONAGGI FAMOSI O IMMAGINARI E' MOLTO INTERESSANTE DA REPLICARE
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