Publio Virgilio Marone
Nel 70
avanti Cristo, nelle Idi di ottobre,(15 ottobre) Publio Virgilio Marone
nacque ad Andes, presso Mantova......
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Bucoliche
Ecloga 1
M. Titiro, tu riposandoti all'ombra di un ampio faggio componi con un esile zufolo una poesia silvestre; noi (io) lasciamo i confini della patria ed i dolci campi, noi fuggiamo esuli dalla patria: tu, Titiro, placido all'ombra, insegni ai boschi a riecheggiare del nome della bella Amarillide.
T. O Melibeo, un dio ha creato questi piaceri per noi: infatti egli per me sarà sempre un dio; spesso un tenero agnello cospargerà di sangue, tratto dai nostri ovili, il suo altare.
Egli ha permesso che le mie mucche vagassero al pascolo liberamente, come vedi, e che io stesso componessi le poesie che volevo con la zampogna agreste.
M. Tuttavia non ti invidio, più che altro mi stupisco: in tutti i campi c'è una tale confusione. Ecco io conduco le caprette avanti senza sosta, sfinito; conduco, Titiro, a stento anche questa: essa fra i fitti noccioli ha appena lasciato infatti due gemelli, speranza del gregge, ohimè, dopo aver partorito sulla nuda selce. Spesso, se la mente non fosse stata obnubilata, mi ricordo che le querce colpite dal fulmine si predissero questo male. Ma tuttavia dicci, Titiro, chi sia questo dio.
T. Ho pensato, Melibeo, che la città che chiamano Roma - da stolto che sono - fosse simile alla nostra, dove spesso siamo soliti portare i teneri piccoli delle capre. Così sapevo che i cagnolini sono simili ai cani, i capretti alle madri; così ero solito comparare le grandi cose a quelle piccole. Ma questa ha sollevato il capo fra le altre città tanto quanto sono soliti fare i cipressi fra i placidi viburni.
M. E quale fu il motivo tanto importante per vedere Roma ?
T. La libertà, che tardi mi vide, anche se non facevo niente, dopo che la barba mi cadeva, quando mi radevo, un po' più bianca; mi guardò, tuttavia, e dopo tanto tempo venne, dopo che mi possiede Amarillide, Galatea mi ha lasciato. Infatti, lo confesserò, mentre mi possedeva Galatea, non avevo speranza di riguadagnarmi la libertà, né cura per il denaro. Benchè molte vittime uscissero dai miei recinti, e grasso formaggio venisse posto in stampi per la città ingrata, mai la mia mano destra tornava a casa pesante per il denaro.
M. Mi stupivo che, Amarillide, invocassi triste gli dei, per chi permettevi che i frutti pendessero sui loro alberi: Titiro non era qui. I pini stessi, Titiro, le fonti, questi stessi arbusti ti invocavano.
T. Cosa avrei dovuto fare ? Non avevo la possibilità di tornare libero ( dall'amore o dalla schiavitù ? ) né di conoscere altrove dei così potenti. Qui l'ho visto da giovane, Melibeo, ed ogni anno per lui per dodici giorni i nostri altari fumano. Qui per primo lui mi diede una risposta, visto che la cercavo: "Pascolate le mucche come prima, garzoni; aggiogate ( o lasciate procreare ? ) i tori".
M. O vecchio fortunato, dunque i campi rimarranno tuoi, e ti saranno sufficienti, benchè la nuda roccia e la palude col suo giunco fangoso ricoprano tutti i pascoli. Ma i prati impraticati non attrarranno le pecore gravide e le brutte malattie del gregge del vicino non faranno loro del male. Vecchio fortunato, qui, fra i fiumi ben conosciuti e le fonti sacre, approfitterai dell'ombra fresca. Di qui, dal confine vicino, la siepe di sempre, succhiata dalle api iblee per il fiore di salice, spesso con un lieve sussurro ti indurrà a prendere sonno. Di qui canterà il potatore al cielo sotto l'alta rupe e non cesseranno di cantare nel frattempo le colombe dal canto rauco, tua passione, né la tortora dall'alto olmo.
T. I cervi leggeri pascoleranno dunque sull'acqua, i flutti lasceranno i pesci nudi sulla riva, da esuli un Parto berrà l'acqua dell'Arar o un Germano quella del Tigri, dopo aver attraversato i confini di entrambi, prima che venga cancellato dal mio cuore il suo volto.
M. Invece noi da qui andremo alcuni fra gli Africani assetati, alcuni in Scizia e verremo all'Oasse che trascina la creta nel suo corso, e tra i Britanni completamente separati dal mondo.
Quando mai, dopo lungo tempo, potrò riammirare la terra natale ed il tetto fatto di zolle del mio povero tugurio, dopo quanti raccolti, vedendo i miei regni ? Un empio soldato possederà questi campi a maggese così ben coltivati, un estraneo queste messi: ecco a che punto la discordia civile ha spinto i poveri cittadini; per costoro abbiamo seminato i campi. Pianta ora, Melibeo, i peri; metti in ordine i filari di viti ! Andate, mie caprette, gregge un tempo felice, andate. Non vi vedrò più da lontano, sdraiato in un anfratto verdeggiante, pendere da una rupe coperta di spini; non canterò più alcun componimento, non vi ciberete più, avendo me come pastore, del citiso in fiore e dei salici amari.
T. Avresti potuto riposare questa notte con me su una verde frasca: noi abbiamo dolci mele, tenere castagne e gran quantità di formaggio; e già da lontano le cime dei tetti dei casolari fumano e più grandi cadono dai monti le ombre.
Villa di Livia a Primaporta -
Il giardino dipinto della Villa di Livia
http://archeoroma.beniculturali.it/museo-nazionale-romano-palazzo-massimo/pitture-mosaici/giardino-dipinto-villa-livia
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Giorgio
Manganelli, Virgilio
1978
GEORGICHE
L’altra opera importante di Virgilio per le descrizioni di paesaggio è le Georgiche divisa in quattro
libri, ha come tema il lavoro nei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame e l’apicoltura. I primi due libri trattano di una natura inanimata (campi e alberi), gli ultimi due si riferiscono ad una natura viva (il bestiame e le api). Nel Libro I si trova la dedica a Mecenate e al Princeps; vengono spiegati i vari aspetti della coltivazione dei campi, come la qualità dei terreni, i metodi dell’aratura e della semina, i segni celesti che il pastore deve leggere per evitare le calamità naturali. Importanti gli excursus sulle origini del labor, su quelle del calendario e sui prodigi celesti avvenuti dopo la morte di Cesare. Il libro termina con la descrizione delle devastazioni dei campi a seguito delle guerre civili. Nel Libro II si trova l’invocazione a Bacco e viene trattata la coltivazione degli alberi. Particolare attenzione hanno la vite e l’olivo. Il Libro III è il libro dell’invocazione agli dei, lode ad Augusto e preludio dell'Eneide; tratta dei metodi di allevamento del bestiame: buoi, cavalli, pecore e capre, cani. Termina con la digressione sulla pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico. Nel Libro IV si trova una nuova dedica a Mecenate e l’invocazione ad Apollo e tratta dell’apicoltura. Excursus sul vecchio di Còrico e narrazione dell'epillio del pastore Aristeo, con digressione sul mito di Orfeo ed Euridice. Nell'epilogo dell'opera l'autore ricorda il soggiorno napoletano e la composizione delle Bucoliche (fig. 4). Virgilio evoca immagini che descrivono il suo paesaggio natale: a capo di un grande corteo, Virgilio si immagina a guidare le Muse dalla cima del monte Elicone in Beonia per fare ritorno in patria, dove per primo, vuole omaggiare la sua città, Mantova, con palme idumee e, al contempo,
omaggiare anche Cesare, facendo erigere per lui un tempio nella verde pianura sulle rive del fiume dove vasto scorre il Mincio, lento nei suoi meandri, velando le rive di tenere canne, motivando poi il suo compito nell’opera delle Georgiche
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ENEIDE
SESTO LIBRO
265 | Di quibus imperium est animarum, umbraeque silenteset Chaos et Phlegethon, loca nocte tacentia late,sit mihi fas audita loqui, sit numine vestropandere res alta terra et caligine mersas.Ibant obscuri sola sub nocte per umbramperque domos Ditis vacuas et inania regna: | ||
270 | quale per incertam lunam sub luce malignaest iter in silvis, ubi caelum condidit umbraIuppiter, et rebus nox abstulit atra colorem.vestibulum ante ipsum primisque in faucibus OrciLuctus et ultrices posuere cubilia Curae, | ||
275 | pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus,et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas,terribiles visu formae, Letumque Labosque;tum consanguineus Leti Sopor et mala mentisGaudia, mortiferumque adverso in limine Bellum, | ||
280 | ferreique Eumenidum thalami et Discordia demensvipereum crinem vittis innexa cruentis.in medio ramos annosaque bracchia panditulmus opaca, ingens, quam sedem Somnia vulgovana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent. | ||
285 | multaque praeterea variarum monstra ferarum,Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformeset centumgeminus Briareus ac belua Lernaehorrendum stridens, flammisque armata Chimaera,Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae. | ||
290 | corripit hic subita trepidus formidine ferrumAeneas strictamque aciem venientibus offert,et ni docta comes tenuis sine corpore vitasadmoneat volitare cava sub imagine formae,inruat et frustra ferro diverberet umbras. | ||
295 | Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas.turbidus hic caeno vastaque voragine gurgesaestuat atque omnem Cocyto eructat harenam.portitor has horrendus aquas et flumina servatterribili squalore Charon, cui plurima mento | ||
300 | canities inculta iacet, stant lumina flamma,sordidus ex umeris nodo dependet amictus.ipse ratem conto subigit velisque ministratet ferruginea subvectat corpora cumba,iam senior, sed cruda deo viridisque senectus. | ||
305 | huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,matres atque viri defunctaque corpora vitamagnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,impositique rogis iuvenes ante ora parentum:quam multa in silvis autumni frigore primo | ||
310l | lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab altoquam multae glomerantur aves, ubi frigidus annustrans pontum fugat et terris immittit apricis.
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)
[…] «Genova di lamenti. Enea. Bombardamenti»… Enea per me è un simbolo. Enea sono io, siamo tutti. Enea non come eroe, ma come espressione dell’uomo d’oggi con sulle spalle il peso di un passato che vorrebbe salvare (Anchise) e con la speranza per mano (il figlio) che deve proteggere. Deve sostenere tutti e due i fardelli e la sua forza sta nello stoicismo di accettare la vita com’è, senza orizzonti. […] la vera solitudine dell’uomo d’oggi mi fu ispirata durante la guerra dalla vista di quel monumentino a Enea (del Baratta, credo) che si trova a Genova in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città. Enea con sulle spalle il peso di una tradizione crollante da tutte le parti (il padre Anchise), e per la mano un futuro anch’esso bisognoso d’essere sorretto non reggendosi ancora sulle proprie gambe. Enea simbolo, insomma, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere. Ne nacque il poemetto intitolato Il passaggio d’Enea. |
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