martedì 1 dicembre 2020

Virgilio

       Publio Virgilio Marone
Nel 70 avanti Cristo, nelle Idi di ottobre,(15 ottobre) Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, presso Mantova......
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Compiuti i primi studi a Cremona e a Milano, Virgilio, ancora giovinetto, approdò finalmente nella grande Roma; avviato a una carriera forense che tuttavia non si confaceva alla sua sua timidezza, era destinato ad incontrarsi con i maggiori intellettuali ed aristocratici del tempo, tra cui Mecenate e il futuro imperatore Augusto. Nemmeno la tumultuosa e caotica vita della capitale si rivelò adatta ad un animo desideroso di pace che spesso colto dalla nostalgia per i semplici costumi della terra natia, per sempre abbandonati. Fu così che se ne andò a Napoli, a frequentare il celebre cenacolo del filosofo epicureo Sirone, sperando probabilmente di staccarsi dagli eventi mondani, in una sublimazione eterea del reale. Nel frattempo, all'ìindomani dell'uccisione di Giulio Cesare, le guerre fratricide non cessavono di creare nuovi scompigli. I triumviri, tra il 42 e 41 avanti Cristo, ordinarono una confisca di terre in vista della distribuzione di lotti agricoli ai veterani congedati. Ed è qui che la storia del poeta si incrocia con quella del nascente Impero. Il piccolo podere di famiglia rientrò infatti nel grandioso piano della divisione delle terre e il dolore dei contadini che si videro espropriare i propri possedimenti echeggia nelle struggenti notre della poesia virgiliana, in modo particolare nelle Bucoliche.
Dal 37 al 29 a.C. furono composte le Georgiche nelle quali il poeta, dopo aver cantato l'Idillio di un idealizzato mondo pastorale in cui soltanto a tratti riusciamo a scorgere la realtà del paesaggio mantovano, esalta il lavoro nei campi come una delle più alte dignità umane, il quotidiano sacrificio dei contadini, la generosa abbondanza della madre terra, aderendo così ad un programma politico che voleva deliberatamente aggrapparsi ai valori della campagna, così da sfuggire alla corruzione dei tempi :
 Con l'Eneide il sommo poeta diede alla luce il capolavoro che gli doveva guadagnare fama paragonabile a quella di Omero. Attraverso innumerevoli espedienti poetici ed una abilissima operazione di recupero dei miti tradizionali, Virgilio evità in qualunque momento del poema di lodare in modo diretto il committente dell'opera, il potente imperatore Augusto, la cui stirpe, quella della nobilissima gens Iulia, veniva miracolosamente a riallacciarsi ad Ascanio/Iulio, a suo padre il pio eroe troiano Enea, e la madre di quest'ultimo, la dea Venere.
Il più illustre cantore delle glorie di Roma non fu mai completamente soddisfatto dalla sua Eneide; non era destino, tuttavia, che egli potesse apportavi i cambiamenti che riteneva necessari. Di ritorno da un viaggio in Grecia il poeta morì a Brindisi, il 21 settembre del 19 a.C. Fù sepolto a Napoli sulla via per Pozzuoli; qui, un ignoto appose quella famose epigrafe che la tradizione avrebbe attribuito inevitabilmente allo stesso Virgilio : "Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua rura duces"
Popolare già in vita il grande maestro dopo la morte acquistò immediatamente una fama senza limiti. Il medioevo cristiano ne fece una sorta di mago e fu lo stesso Dante a consacrarlo "maestro e dottore", scegliendolo come guida nel suo viaggio ultraterreno.




Bucoliche 
«La facilità di dare espressione in poche parole ai tratti caratteristici di un determinato paesaggio e di svegliare nel lettore una ricchezza di sensazioni che nel suo spirito si collegano direttamente con questo particolare paesaggio, questa facoltà […] non è mai esistita nella poesia antica, neppure in quella greca, con la stessa forza come nella poesia augustea. Mai prima la rappresentazione del colore e dell’atmosfera di un paesaggio per mezzo dei suoni e del ritmo, è riuscita così perfettamente come negli ultimi versi della I ecloga di Virgilio» E. FRAENKEL, Carattere della poesia augustea, in «Kleine Beitrage», II, Roma, 1964, p. 228.


Ecloga 1
MELIBOEUS.
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva;
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra,
formosam resonare doces Amaryllida silvas.
TITYRUS
O Meliboee, deus nobis haec otia fecit:
namque erit ille mihi semper deus      [....]

TI. Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similis, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.

ME. Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?
TI. Libertas    [......]

Me: Fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum.
Hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicta 
saepe levi somnum suadebit inire susurro;
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras;
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes,
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.

TI. Ante leves ergo pascentur in aethere cervi,
et freta destituent nudos in litore piscis, [.....]
quam nostro illius labatur pectore voltus.

TI. Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi. Sunt nobis mitia poma,
castaneae molles et pressi copia lactis;
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

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Ecloga  1  in traduzione
M. Titiro, tu riposandoti all'ombra di un ampio faggio componi con un esile zufolo una poesia silvestre; noi (io) lasciamo i confini della patria ed i dolci campi, noi fuggiamo esuli dalla patria: tu, Titiro, placido all'ombra, insegni ai boschi a riecheggiare del nome della bella Amarillide.
T. O Melibeo, un dio ha creato questi piaceri per noi: infatti egli per me sarà sempre un dio; spesso un tenero agnello cospargerà di sangue, tratto dai nostri ovili, il suo altare.
Egli ha permesso che le mie mucche vagassero al pascolo liberamente, come vedi, e che io stesso componessi le poesie che volevo con la zampogna agreste.
M. Tuttavia non ti invidio, più che altro mi stupisco: in tutti i campi c'è una tale confusione. Ecco io conduco le caprette avanti senza sosta, sfinito; conduco, Titiro, a stento anche questa: essa fra i fitti noccioli ha appena lasciato infatti due gemelli, speranza del gregge, ohimè, dopo aver partorito sulla nuda selce. Spesso, se la mente non fosse stata obnubilata, mi ricordo che le querce colpite dal fulmine si predissero questo male.  Ma tuttavia dicci, Titiro, chi sia questo dio.
T. Ho pensato, Melibeo, che la città che chiamano Roma - da stolto che sono - fosse simile alla nostra, dove spesso siamo soliti portare i teneri piccoli delle capre. Così sapevo che i cagnolini sono simili ai cani, i capretti alle madri; così ero solito comparare le grandi cose a quelle piccole. Ma questa ha sollevato il capo fra le altre città tanto quanto sono soliti fare i cipressi fra i placidi viburni.
M. E quale fu il motivo tanto importante per vedere Roma ?
T. La libertà, che tardi mi vide, anche se non facevo niente, dopo che la barba mi cadeva, quando mi radevo, un po' più bianca; mi guardò, tuttavia, e dopo tanto tempo venne, dopo che mi possiede Amarillide, Galatea mi ha lasciato. Infatti, lo confesserò, mentre mi possedeva Galatea, non avevo speranza di riguadagnarmi la libertà, né cura per il denaro. Benchè molte vittime uscissero dai miei recinti, e grasso formaggio venisse posto in stampi per la città ingrata, mai la mia mano destra tornava a casa pesante per il denaro.
M. Mi stupivo che, Amarillide, invocassi triste gli dei, per chi permettevi che i frutti pendessero sui loro alberi: Titiro non era qui. I pini stessi, Titiro, le fonti, questi stessi arbusti ti invocavano.
T. Cosa avrei dovuto fare ? Non avevo la possibilità di tornare libero ( dall'amore o dalla schiavitù ? ) né di conoscere altrove dei così potenti. Qui l'ho visto da giovane, Melibeo, ed ogni anno per lui per dodici giorni i nostri altari fumano. Qui per primo lui mi diede una risposta, visto che la cercavo: "Pascolate le mucche come prima, garzoni; aggiogate ( o lasciate procreare ? ) i tori".
M. O vecchio fortunato, dunque i campi rimarranno tuoi, e ti saranno sufficienti, benchè la nuda roccia e la palude col suo giunco fangoso ricoprano tutti i pascoli. Ma i prati impraticati non attrarranno le pecore gravide e le brutte malattie del gregge del vicino non faranno loro del male. Vecchio fortunato, qui, fra i fiumi ben conosciuti e le fonti sacre, approfitterai dell'ombra fresca. Di qui, dal confine vicino, la siepe di sempre, succhiata dalle api iblee per il fiore di salice, spesso con un lieve sussurro ti indurrà a prendere sonno. Di qui canterà il potatore al cielo sotto l'alta rupe e non cesseranno di cantare nel frattempo le colombe dal canto rauco, tua passione, né la tortora dall'alto olmo.
T. I cervi leggeri pascoleranno dunque sull'acqua, i flutti lasceranno i pesci nudi sulla riva, da esuli un Parto berrà l'acqua dell'Arar o un Germano quella del Tigri, dopo aver attraversato i confini di entrambi, prima che venga cancellato dal mio cuore il suo volto.
M. Invece noi da qui andremo alcuni fra gli Africani assetati, alcuni in Scizia e verremo all'Oasse che trascina la creta nel suo corso, e tra i Britanni completamente separati dal mondo.
Quando mai, dopo lungo tempo, potrò riammirare la terra natale ed il tetto fatto di zolle del mio povero tugurio, dopo quanti raccolti, vedendo i miei regni ? Un empio soldato possederà questi campi a maggese così ben coltivati, un estraneo queste messi: ecco a che punto la discordia civile ha spinto i poveri cittadini; per costoro abbiamo seminato i campi. Pianta ora, Melibeo, i peri; metti in ordine i filari di viti ! Andate, mie caprette, gregge un tempo felice, andate. Non vi vedrò più da lontano, sdraiato in un anfratto verdeggiante, pendere da una rupe coperta di spini; non canterò più alcun componimento, non vi ciberete più, avendo me come pastore, del citiso in fiore e dei salici amari.
T. Avresti potuto riposare questa notte con me su una verde frasca: noi abbiamo dolci mele, tenere castagne e gran quantità di formaggio; e già da lontano le cime dei tetti dei casolari fumano e più grandi cadono dai monti le ombre.




 


Villa di Livia a Primaporta - 

Il giardino dipinto della Villa di Livia

Questo rigoglioso giardino dipinto ricopriva le pareti di una sala semi-sotterranea, probabilmente un fresco triclinio per banchetti estivi, nella Villa suburbana di Livia Drusilla, moglie di Augusto.
L’affresco di secondo stile, esempio più antico di pittura continua di giardino (30- 20 a.C.), presenta una varietà di piante e di uccelli naturalisticamente riprodotti.
Numerose sono le specie botaniche individuate: in primo piano, il pino domestico (Pinus pinea), la quercia (Quercus robur), l’abete rosso (Picea excelsa); oltre un recinto marmoreo crescono meli cotogni, melograni, mirti, oleandri, palme da datteri, corbezzoli, allori, viburni, lecci, bossi, cipressi, edera e acanto. Nel prato sotto gli alberi fioriscono rose, papaveri, crisantemi e camomilla, mentre nei vialetti in primo piano si alternano felci, violette e iris.

http://archeoroma.beniculturali.it/museo-nazionale-romano-palazzo-massimo/pitture-mosaici/giardino-dipinto-villa-livia



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Giorgio Manganelli, Virgilio

1978


Nell’articolo che qui si riporta, Giorgio Manganelli, saggista e scrittore, recensisce sulle colonne de “La stampa” [1] l’edizione delle Bucoliche virgiliane con traduzione di Luca Canali e ne approfitta per riflettere sull’opera di Virgilio in generale. Manganelli giunge così a una constatazione importante, che troppo spesso si tende a dimenticare: le Bucoliche sono un testo violento, che parla della vita di tutti noi, hanno un contenuto simbolico e ‘morale’ che va oltre la pura lettera del racconto.

Nell’infanzia di molti di noi pesa una Grande Immagine, insieme domestica ed esotica, infantile e gigantesca: il presepio. Il presepio accoglie e giustappone immagini di bizzarra e pure non ostile estraneità; vi sono pastori e re, uomini della terra, e araldici magi, contemplatori dei cieli e interpreti dei segni dei tempi. Vi sono uomini pii e predoni, e l’erba è fitta e alta, gli alberi si affollano in modo antiscientifico – pini, faggi e banani – e animali miti, ingenui si mescolano, in una solenne sospensione dei tempi, con le belve e i predatori dell’astuzia. Al centro di questa macchina allegorica sta un che di poderoso e misterioso, qualcosa che possiamo conoscere come l’infinita gentilezza, la grazia minuscola ed inesauribile, ed anche come la promessa della violenza e della tragedia: accanto al profumo della lana e del latte fresco, urge e ferve un presentimento di sangue.
    Chiunque abbia per primo fantasticato questa immobile e tesa “rappresentazione” ha, forse ignaro, forse inconsapevole ma non ignaro, evocato una figura colta e difficile, che nel trascorrere dei tempi conobbe molti e contrastanti mascheramenti: l’Arcadia. L’Arcadia è molte cose e, come nella botanica fantastica del presepio, si tratta di cose stranamente raccolte. Fu in primo luogo una regione del Peloponneso: la geografia può dare qualche non volgare piacere letterario. In quell’Arcadia, di clima sgarbato e contadini poveri, ma flautisti ottimi, vi erano santuari di una sacralità terribile: chi entrava nel tempio di Zeus sul Lycaeon veniva lapidato; a Figalia, dove sopravvive un mirabile tempio deserto di uomini e numi, una Signora Nera, che era Demetra, veniva venerata in una figura con testa di cavallo; infine, era la regione del dio Pan.
     Ad un certo punto quella terra aspra e mitica divenne, più di qualsiasi altra regione della Grecia, un puro simbolo; pur essendoci, conquistò il grado del non essere fisico, dell’essere puramente mentale. La vita simbolica di quell’oscura provincia fu enorme; ed alla fine si estinse in una immagine di delicata e frivola pastorelleria. Come si usa dire oggi, l’Arcadia venne “consumata”. Ma quel consumo fu lungo.
    “L’Arcadia venne scoperta nell'anno 42 o 41 a C.” scrive Bruno Snell, che è uomo d’onore (La cultura greca e le origini de pensiero europeo, Einaudi, ristampa ’77). E aggiunge: “Questo paese venne scoperto da Virgilio”. Ma che cosa “scoperse” Virgilio, e perché ciò che scoperse si chiamava Arcadia? E perché mai non lo scopersero i Greci? Teocrito, maestro di poesia bucolica nei suoi idilli nomina solo tre volte l’Arcadia: ma una di queste citazioni (lI, 48) val la pena di recuperarla; in Arcadia, scrive, prospera lo hippomanès fytòn, la Datura, l’erba di cui i cavalli sono avidi e che li fa impazzire. E’ una immagine selvaggia che sa di magia e di veleni. L’Arcadia che Virgilio venne lentamente “scoprendo” nel lungo lavoro – quattro anni – delle dieci Bucoliche non era un luogo di morbidi ozi, di amori felici, una isola di Citera ignara di affanni, una sorta di Eden non consolato e non minacciato dalla divinità. Chi le rilegge ora, magari molti anni dopo un dimenticato liceo, ha la sorpresa di trovarsi per le mani un testo irrequieto, drammatico, enigmatico, segreto, di estrema eleganza e di continua nascosta violenza, un testo intensamente doloroso ma non mai sentimentale, nel quale tutte le emozioni si fermano nella pace ben disegnata di una cerimonia.
    E’ uscita ora, in una nuova collana della BUR (Rizzoli) dedicata alla poesia, una edizione delle Bucoliche, che al testo latino giustappone la nitidamente elegante traduzione di Luca Canali. La scuola, che non ne combina mai una buona, faceva leggere le Bucoliche tra i primi classici facili, poco dopo il solito Tibullo. Di conseguenza, di questo testo rimane un ricordo musicale, un po’ languido, fatto di flauti, di pastori che mangiano  ricotta e castagne molli. In nota si trovava qualche precisazione storica: espropri, guerre civili, veterani, Augusto. Possiamo, forse, legittimamente chiederci che cosa è mai, oggi, per chi si occupa di lettere, questo straordinario, esile volume vecchio di duemila anni. Che non sia niente di quel che abbiamo creduto di imparare a scuola, pare ovvio; ma anche molti clichés tradizionali non ci sembrano persuasivi. Mi permetto di non credere che la poesia delle Bucoliche sia “poesia della natura”. Certo, ci sono i faggi, le selve, le fonti, le api, c’è tutta la mobilia della Natura. Ma non dimentichiamo: questa Arcadia ha traslocato; non si è trasferita dalla Grecia al Mantovano, ma ha cambiato livello, è uscita da un piano di realtà, ha avuto accesso al piano della irrealtà. La luce dell’irreale tocca ed illumina tutti gli oggetti, e tutte le figure. I ligustri hanno una esistenza fonica, i fonti sono pura scenografìa, il luogo della rappresentazione. Non sono falsi, sono inventati, e poco conta che siano uguali ai fonti, ai ligustri tangibili e perituri. La “natura” virgiliana delle Bucoliche trasuda potenza magica, le immagini sono numi, il disegno che si forma ha la difficile e occulta arguzia del labirinto. E’ il labirinto che fa il libro, non le siepi di bosso che fanno il labirinto, e che senza di esso non potrebbero mai esistere. Essendo l’Arcadia virgiliana una regione mentale, essa è tendenzialmente immobile. Si dirà che vi sono tracce, e molto evidenti, di angustie storiche; ma per noi lettori di oggi, lo straordinario non è già la presenza clandestina della storia, ma il modo come quella tragedia del quotidiano si è sciolta in una pura allusione, in un racconto non scritto. Le Bucoliche sono fitte di racconti, forse di romanzi non scritti: nomi evocati e lasciati cadere, rapidi affanni del ricordo; sono, in gran parte, racconti d'amore. Ed eccoci prossimi al centro del labirinto bucolico: l’Arcadia non è luogo di passioni placate, ma furibonde; l’amore è “dementia, furor, exitium”: smania e morte. L’ottava egloga racconta il suicidio di Damone, che ha “imparato che mai sia Amore”, nato “tra aspri macigni”, e le magherie che il pastore magico Alfesibeo tesse in pro’ di una donna abbandonata; giacché la magia può “evocare anime dal fondo dei sepolcri”. In un dolcissimo verso, che ha dato gran da fare a filologi disinnamorati, Virgilio raccoglie le contraddizioni amorose: “chiunque / temerà le delizie d'amore o ne proverà le amarezze” (III, 110) “amores / metuet dulces...”.
    Ma in questa selva Arcadica, lacerata dalla memoria del mondo, e dalla demenza dell’amore, percorsa da formule di magia potente, soffiano venti intensi, che vengono si ignora donde: i grandi, criptici venti del cosmo e dell'eterno. Nella sesta egloga un Sileno mitemente ebbro ripete la nascita del mondo e, per allusioni — altri racconti non raccontati — tocca una serie di grandi miti. Testo misterioso, il canto di Sileno sembra essere il catalogo dionisiaco del modo sacro di esistere del cosmo, come può essere inteso in quel tempio inaccessibile che è questa Arcadia. Ancora più occulta, la quarta egloga – letta per secoli come un profetico annuncio del cristianesimo imminente – ci appare come una pura “profezia”, intesa come genere letterario e come modo di intendere il significato del tempo, il mito del “futuro”, che imporrà all’Arcadia un’ulteriore trasformazione, una sublimazione di cui l’Arcadia poetica appare come una tappa in un ignoto itinerario.
    L’Arcadia “scoperta” da Virgilio è dunque un luogo severo, aspro violento, passionale; turbato da magie e sommosso da un poderoso destino profetico. Le piaghe del mondo lo raggiungono senza ferirlo. Questa Arcadia è, infatti, un tessuto impossibile a lacerare, un tessuto di parole. Al centro del labirinto sta il dio Pan: Dio solitario, rapinoso, “dio dello stupro” l’ha definito Hillman (Saggio su Pan, Adelphi), ma anche dio della musica, degli strumenti  musicali, dei ritmi. Tutte le egloghe sono musicali, cioè trasformano in suono, consumano in una modulazione perfetta tutta la violenza che è l’Arcadia. La trasparenza, la lenta insinuazione del discorso, direi l’uso fonico dei silenzi, delle pause, delle interpunzioni, ha di rado raggiunto una così limpida precisione di gesti. Nella letteratura italiana, mi vien fatto di pensare ad un testo che deve molto a questo Virgilio: l’Aminta del Tasso. Vorrei chiudere questo accenno alla magia bianca delle parole con un esempio: la prima egloga finisce con un famoso verso: “maioresque cadunt altis de montibus umbrae” (“e più lunghe dall'alto dei monti discendono le ombre”); gli ultimi tre versi dell’ultima sono una perfetta variazione sul tema, con una sostituzione che avviene solo quando il motivo è nitidamente fissato:
Surgamus. Solet esse gravis cantantibus umbra,
iuniperi gravis umbra: nocent et frugibus umbrae.
Ite domum saturae. venit Hesperus, ite capellae.
[Alziamoci. L’ombra di solito nuoce a coloro che cantano,
nociva è l’ombra del ginepro. L’ombra nuoce alle messi.
Tornate sazie alle stalle, capre, Espero sorge].

Al centro del labirinto d’Arcadia sta una triplice “umbra” magica, una angustia “gravis”, amara, che la mite esattezza del canto trasforma nell’ambigua, notturna e luminosa apparizione di Espero, l’astro lontano che è il sole arcadico.
    “Umbrae”: l’Arcadia svanisce in un profilo indecifrabile, una melodia di dèi la conduce all’esistenza del sonno, dei sogni.



[1] Il saggio è stato poi riedito nel volume Laboriose inezie, Milano 1986.
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GEORGICHE

L’altra opera importante di Virgilio per le descrizioni di paesaggio è le Georgiche divisa in quattro
libri, ha come tema il lavoro nei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame e l’apicoltura. I primi due libri trattano di una natura inanimata (campi e alberi), gli ultimi due si riferiscono ad una natura viva (il bestiame e le api). Nel Libro I si trova la dedica a Mecenate e al Princeps; vengono spiegati i vari aspetti della coltivazione dei campi, come la qualità dei terreni, i metodi dell’aratura e della semina, i segni celesti che il pastore deve leggere per evitare le calamità naturali. Importanti gli excursus sulle origini del labor, su quelle del calendario e sui prodigi celesti avvenuti dopo la morte di Cesare. Il libro termina con la descrizione delle devastazioni dei campi a seguito delle guerre civili. Nel Libro II si trova l’invocazione a Bacco e viene trattata la coltivazione degli alberi. Particolare  attenzione hanno la vite e l’olivo. Il Libro III è  il libro dell’invocazione agli dei, lode ad Augusto e preludio dell'Eneide; tratta dei metodi di allevamento del bestiame: buoi, cavalli, pecore e capre, cani. Termina con la digressione sulla pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico. Nel Libro IV si trova una nuova dedica a Mecenate e l’invocazione ad Apollo e tratta dell’apicoltura. Excursus sul vecchio di Còrico e narrazione dell'epillio del pastore Aristeo, con digressione sul mito di Orfeo ed Euridice. Nell'epilogo dell'opera l'autore ricorda il soggiorno napoletano e la composizione delle Bucoliche (fig. 4). Virgilio evoca immagini che descrivono il suo paesaggio natale: a capo di un grande corteo, Virgilio si immagina a guidare le Muse dalla cima del monte Elicone in Beonia per fare ritorno in patria, dove per primo, vuole omaggiare la sua città, Mantova, con palme idumee e, al contempo,
omaggiare anche Cesare, facendo erigere per lui un tempio nella verde pianura sulle rive del fiume dove vasto scorre il Mincio, lento nei suoi meandri, velando le rive di tenere canne, motivando poi il suo compito nell’opera delle Georgiche

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ENEIDE


 SESTO LIBRO

265

Di quibus imperium est animarum, umbraeque silentes

et Chaos et Phlegethon, loca nocte tacentia late,

sit mihi fas audita loqui, sit numine vestro

pandere res alta terra et caligine mersas.

 

 

Ibant obscuri sola sub nocte per umbram

perque domos Ditis vacuas et inania regna:

270

quale per incertam lunam sub luce maligna

est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra

Iuppiter, et rebus nox abstulit atra colorem.

vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci

Luctus et ultrices posuere cubilia Curae,

275

pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus,

et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas,

terribiles visu formae, Letumque Labosque;

tum consanguineus Leti Sopor et mala mentis

Gaudia, mortiferumque adverso in limine Bellum,

280

ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens

vipereum crinem vittis innexa cruentis.

in medio ramos annosaque bracchia pandit

ulmus opaca, ingens, quam sedem Somnia vulgo

vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent.

285

multaque praeterea variarum monstra ferarum,

Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes

et centumgeminus Briareus ac belua Lernae

horrendum stridens, flammisque armata Chimaera,

Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae.

290

corripit hic subita trepidus formidine ferrum

Aeneas strictamque aciem venientibus offert,

et ni docta comes tenuis sine corpore vitas

admoneat volitare cava sub imagine formae,

inruat et frustra ferro diverberet umbras.

 

295

Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas.

turbidus hic caeno vastaque voragine gurges

aestuat atque omnem Cocyto eructat harenam.

portitor has horrendus aquas et flumina servat

terribili squalore Charon, cui plurima mento

300

canities inculta iacet, stant lumina flamma,

sordidus ex umeris nodo dependet amictus.

ipse ratem conto subigit velisque ministrat

et ferruginea subvectat corpora cumba,

iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.

305

huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,

matres atque viri defunctaque corpora vita

magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,

impositique rogis iuvenes ante ora parentum:

quam multa in silvis autumni frigore primo

310l

lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto

quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus

trans pontum fugat et terris immittit apricis.


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)



Eneide, canto VI

(vv. 752-759, 788-795,  847-853)

 

Dixerat Anchises natumque unaque Sibyllam

conventus trahit in medios turbamque sonantem,

et tumulum capit unde omnis longo ordine posset

adversos legere et venientum discere vultus.

"Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde  sequatur

gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,

illustris animas nostrumque in nomen ituras,

expediam dictis, et te tua fata docebo.

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Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem

Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli

progenies magnum caeli ventura sub axem.

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, divi genus, aurea condet

saecula qui rursus Latio regnata per arva

Saturno quondam, super et Garamantas et Indos proferet imperium.

....................................................................

 

Excudent alii spirantia mollius aera

(credo equidem), vivos ducent de marmore vultus,

orabunt causas melius, caelique meatus

describent radio et surgentia sidera dicent:

tu regere imperio populos, Romane, memento

(hae tibi erunt artes), pacisque imponere morem,

parcere subiectis et debellare superbos."

 

 

Traduzione

 

 

Anchise aveva parlato e conduce il figlio e insieme la Sibilla in mezzo ai gruppi e alla turba risonante, e occupa un’altura da dove possa vedere tutti di fronte in lungo ordine e riconoscere i volti di quelli che passavano.

“Ora suvvia, ti spiegherò quale gloria attenda in futuro la prole dardania, quali discendenti dalla gente italica siano destinati, anime illustri che andranno nel nostro nome, e a te indicherò il tuo destino.

………………………………………………

 

Ora volgi qui (entrambi) gli occhi, osserva questa gente e i tuoi Romani. Qui (è) Cesare e tutta la stirpe di Iulo che verrà sotto la grande volta del cielo. Questo è l’uomo, proprio questo, che molto spesso senti esserti promesso, Cesare Augusto, stirpe divina, che fonderà di nuovo nel Lazio l’età dell’oro, sui campi regnati un tempo da Saturno, estenderà l’impero sopra i Garamanti(1) e gli Indi………………………………

 

Forgeranno altri più dolcemente i bronzi che respirano (lo credo davvero), trarranno dal marmo vivi volti, peroreranno meglio le cause e descriveranno con il compasso i percorsi del cielo e indicheranno gli astri che sorgono: tu, o Romano, ricordati di dominare i popoli (queste saranno le tue arti), di imporre le norme della pace, di risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.

 

(1) popolazione nomade del deserto libico.


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[…] «Genova di lamenti. Enea. Bombardamenti»… Enea per me è un simbolo. Enea sono io, siamo tutti. Enea non come eroe, ma come espressione dell’uomo d’oggi con sulle spalle il peso di un passato che vorrebbe salvare (Anchise) e con la speranza per mano (il figlio) che deve proteggere. Deve sostenere tutti e due i fardelli e la sua forza sta nello stoicismo di accettare la vita com’è, senza orizzonti.

 […] la vera solitudine dell’uomo d’oggi mi fu ispirata durante la guerra dalla vista di quel monumentino a Enea (del Baratta, credo) che si trova a Genova in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città. Enea con sulle spalle il peso di una tradizione crollante da tutte le parti (il padre Anchise), e per la mano un futuro anch’esso bisognoso d’essere sorretto non reggendosi ancora sulle proprie gambe. Enea simbolo, insomma, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere. Ne nacque il poemetto intitolato Il passaggio d’Enea.



GIORGIO CAPRONI, IL MIO ENEA


QUI LA STATUA DI ENEA


CAPRONI E IL PASSAGGIO DI ENEA DI MAURIZIO BETTINI




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