mercoledì 13 gennaio 2021

OVIDIO


Ovidio Metamorfosi Libro I

 

1 In nova fert animus mutatas dicere formas

  corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas)

  adspirate meis primaque ab origine mundi

  ad mea perpetuum deducite tempora carmen!

 

5 Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum

  unus erat toto naturae vultus in orbe,

  quem dixere chaos: rudis indigestaque moles

  nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem

  non bene iunctarum discordia semina rerum.

 

 

 A narrare di forme cambiate in corpi stranieri mi spinge l'ingegno; al progetto, dèi, date respiro (siete voi che lo avete cambiato) e guidate i miei versi a discendere dal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni.

Prima del mare, dei campi, del ciclo a coprire ogni cosa, per l'universo mostrava la natura un'identica faccia, il Caos, come l'hanno chiamata: una massa informe e confusa, nient'altro che un torpido peso e dentro, ammucchiati e discordi, i germi di cose sconnesse.

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Alfonso Berardinelli LODE AD OVIDIO... giugno 2014

Pietro Citati, L'eterno potere di Medusa, La Repubblica 15 sett 2009

" Qualche mese prima di morire, W. H. Auden scrisse (sorridendo) che le Metamorfosi di Ovidio sarebbe stato il libro del XXI secolo. Qualche anno dopo, nelle Lezioni americane, Italo Calvino scrisse quasi la stessa cosa.
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La permanenza del mito delle metamorfosi in letteratura e in arte
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DA Italo Calvino, Lezioni americane, La leggerezza 
Ho già citato le Metamorfosi d'Ovidio, un altro poema enciclopedico (scritto una cinquantina d'anni più tardi di quello di Lucrezio) che parte, anziché dalla realtà fisica, dalle favole mitologiche. Anche per Ovidio tutto può trasformarsi in nuove forme; anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo; anche per Ovidio c'è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori.
Se il mondo di Lucrezio è fatto d'atomi inalterabili, quello d'Ovidio è fatto di qualità, d'attributi, di forme che definiscono la diversità d'ogni cosa e pianta e animale e persona; ma questi non sono che tenui involucri d'una sostanza comune che, - se agitata da profonda passione - può trasformarsi in quel che vi è di più diverso. E' nel seguire la continuità del passaggio da una forma a un'altra che Ovidio dispiega le sue ineguagliabili doti: quando racconta come una donna s'accorge che sta trasformandosi in giuggiolo: i piedi le rimangono inchiodati per terra, una corteccia tenera sale a poco a poco e le serra le inguini; fa per strapparsi i capelli e ritrova la mano piena di foglie. O quando racconta delle dita di Aracne, agilissime nell'agglomerare e sfilacciare la lana, nel far girare il fuso, nel muovere l'ago da ricamo, e che a un tratto vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere ragnatele.
Tanto in Lucrezio quanto in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: le dottrine di Epicuro per Lucrezio, le dottrine di Pitagora per Ovidio (un Pitagora che, come Ovidio ce lo presenta, somiglia molto a Budda).

Di una contiguità tra uomini, animali e cose e, quindi, di un passaggio sempre possibile tra le varie condizioni parla Italo Calvino a proposito delle “Metamorfosi” di Ovidio e proprio in uno scritto introduttivo della edizione dei “Millenni” di Einaudi del 1979. 
Annota, tra l’altro, che non c’è gerarchia: “La compenetrazione dèi-uomini-natura implica non un ordine gerarchico univoco ma un intricato sistema d’interrelazioni in cui ogni livello può influire sugli altri, sia pur in diversa misura. Il mito, in Ovidio, è il campo di tensione in cui queste forze si scontrano e si bilanciano”. E, riprendendo dalla Introduzione di Piero Bernardini alla stessa edizione, sottolinea il modo di  designare gli oggetti (animati e inanimati) “come differenti combinazioni di un numero relativamente piccolo di elementi fondamentali, semplicissimi”, che è poi  la sola, certa, filosofia delle Metamorfosi : “quella della unità e parentela di tutto ciò che esiste al mondo, cose ed esseri viventi”. 
Calvino diventa più preciso  : “Col racconto cosmogonico del libro I e la professione di fede di Pitagora dell’ultimo, Ovidio ha voluto dare una sistemazione teorica a questa filosofia naturale, forse in concorrenza col lontanissimo Lucrezio. Sul valore da dare a queste enunciazioni si è molto discusso, ma forse la cosa che conta per noi è la coerenza poetica nel modo che Ovidio ha di rappresentare  e raccontare il suo mondo: questo brulicare e aggrovigliarsi di vicende spesso simili e sempre diverse, in cui si celebra la continuità e mobilità del tutto”.

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La "fortuna" di Ovidio. 

L'antichità. Grande è stata nei secoli la fortuna di Ovidio, sia in letteratura sia nelle arti figurative.
Sebbene, anche in seguito all'esilio e all'esclusione delle sue opere dalle biblioteche pubbliche, sia stato nei primi tempi poco presente nelle scuole di grammatica e quindi non figuri tra gli autori canonici, ebbe fama quasi pari a quella di Virgilio. La popolarità fin dall'antichità è testimoniata sia dai falsi attribuitigli sia dalla diffusione dei suoi versi nei graffiti pompeiani.

Con l'avvento del Cristianesimo la fortuna non declina. "Poeta dei due mondi" secondo la definizione di Fraenkel, cioé sospeso tra la sensualità pagana e le inquietudini della nuova era, Ovidio è ben noto agliautori cristiani .
Il Medioevo. Enorme fu la fortuna nel Medioevo dove l'opera di Ovidio, in quanto costituì la fonte
precipua di mitologia greca e latina, contese il primato a Virgilio, come attesta l'ampia tradizione
manoscritta dal IX secolo in poi. Il poeta di Sulmona divenne mago, filosofo, profeta.  In effetti il poema della trasformazione universale fu il veicolo principale, se non proprio esclusivo, di trasmissione dello splendido mondo delle favole pagane. Le Metamorfosi furono la fonte di quasi tutte le similitudini mitologiche della Divina Commedia. Ad esempio, quando nel Purgatorio (XXVII, 37 segg.) Dante vuole descrivere l'effetto esercitato su di lui dall'amata, si rifà a un celebre episodio ovidiano: "come al nome di Tisbe aperse il ciglio/ Piramo in su la morte e riguardolla/ allor che il gelso diventò vermiglio...". Ovviamente nelle trasformazioni Ovidio è il modello indiscusso: così la metamorfosi di Cadmo in serpente influisce sulla vigorosa descrizione dantesca di quella stessa mutazione (Inferno, XXV, 103 segg.). Del resto Dante pone Ovidio tra i grandi poeti che nel Limbo si fanno incontro a Virgilio: dopo Omero ed Orazio, prima di Lucano. Inoltre lo cita nel De vulgari eloquentia (II, VI, 7) come esempio di stile illustre insieme con Lucano.
 Ma il trionfo è nella Francia del XII e XIII secolo, che a partire da Ovidio elaborò la cultura dell' "amor cortese". Basti ricordare Chrétien de Troyes, autore del Lancelot e traduttore dell'Ars amatoria. Questo periodo, durante il quale le opere di Ovidio furono ricercate per tutto lo spazio romanzo e il loro autore divenne oggetto di un vero e proprio culto da parte di trovatori, chierici e cavalieri, fu da Traube definito aetas ovidiana, successiva all'aetas vergiliana.
Sempre nel XII secolo Andrea Capellano col suo trattato sull'amore ispirato all'Ars ovidiana diede
forma teorica alla "religione d'amore".
In età umanistica Petrarca ammirò Ovidio, che però definì per i contenuti lascivus
Come Boccaccio, alle Metamorfosi s'ispirava tutta la novellistica contemporanea da Chaucer a Gower.
La fortuna continua nel Rinascimento. Poliziano imita alcune delle più famose favole delle
Metamorfosi, in particolare quella di Orfeo ed Euridice : un mito caro al Rinascimento, che in esso
vedeva la simbolica esaltazione della poesia civilizzatrice e vincitrice della morte.
Nel Cinquecento l'Ariosto - al pari d'Ovidio amante dello straordinario, del sorprendente e portato alla costruzione brillante e labile dell'ingegno - rinnova l'illusionismo delle Metamorfosi, il distacco ironico.
Anch'egli, come il poeta latino, conserva e vuole conservata nel lettore la consapevolezza dell'irrealtà
del suo mondo poetico. Anche Tasso fa ricorso al poema delle trasformazioni per introdurre episodi
"meravigliosi".
L'età barocca. Altra splendida aetas ovidiana fu quella barocca, che ebbe punti di contatto profondi
con la sensibilità e il gusto di Ovidio. Del resto la critica ha più volte parlato di arte barocca delle
Metamorfosi, con riferimento all'esuberanza delle immagini, all'assenza di misura, alla teatralità
scenografica, al concettismo e alla volontà di stupire, all'assenza di un centro narrativo, logico,
ideologico. L'arte di Ovidio è presente in Marino, il quale nell'Adone si ispira alla vicenda amorosa di
Venere e Adone.
Elementi ovidiani sono presenti in Shakespeare, il quale imita la novella di Piramo e Tisbe -
riprendendola da una stesura del Novellino di Masuccio Salernitano rielaborata da Luigi da Porto e da
Matteo Bandello - sia in Romeo e Giulietta, sia in Sogno di una notte di mezza estate. In Spagna anche l'arte del Gòngora risente del poema delle trasformazioni.
In Francia La Fontaine compone il suo Filemone e Bauci (vicenda ripresa poi anche da Goethe, nel suo Faust ).
L'influsso nelle arti figurative. Nelle arti figurative immenso è l'infusso ovidiano. L'amore per le belle forme trasse alle Metamorfosi gli artisti delle arti plastiche e pittoriche: Raffaello, Correggio, Tiziano, Rubens, il Bernini autore del celebre gruppo scultureo di Apollo e Dafni che è "testimonianza impressionante, nel campo delle arti visive, della capacità di ritrarre il cambiamento in progress e la passione in movimento che animano il poema ovidiano" (Segal).
Il Settecento.  Voltaire coglie nella poesia d'Ovidio la componente pagana eterna dell'umanità: "Affascineranno sempre gli errori della Grecia,sempre Ovidio incanterà. Se i nostri popoli moderni sono cristiani in chiesa, essi sono pagani all'opera". 
Il Romanticismo. Solo i Romantici, estimatori della passione e del primitivo, non ebbero simpatia per questo poeta troppo freddo, intellettuale, allievo dei retori, responsabile d'aver trasmesso la mitologia greca al classicismo di tutti tempi.
Il Novecento. Nel Novecento, quando l'arte riflette gli stati d'animo torbidi e complicati dell'uomo
contemporaneo, Ovidio rinverdisce la sua fortuna. È amato dai poeti tendenti al virtuosismo e al culto
della forma, come i simbolisti francesi e il D'Annunzio (oltre tutto suo conterraneo ) delle Laudi: nel
secondo e terzo libro, Maia e Alcione, sono ripresi i miti di Orfeo ed Euridice, di Apollo e Dafne,
anche se con sensualità e "panismo" estranei all'originale. Ma la vitalità dell'opera ovidiana è anche
nella sua perdurante capacità di stimolare nuove forme di creazione fantastica.
La lettura di Calvino. Un segno eloquente della modernità artistica di Ovidio è il fatto che un lettore
finissimo dei classici quale fu Italo Calvino, in quel testamento letterario che sono sue Lezioni
americane, parte soprattutto dalla lettura delle Metamorfosi per definire "valori o qualità o specificità
della letteratura". È il testo ovidiano a suggerigli i parametri letterari fondamentali (leggerezza, rapidità esattezza, visibilità, molteplicità), cioé il codice del comportamento letterario destinato a indirizzare la letteratura del prossimo millennio (il sottotitolo delle Lezioni è Sei proposte per il prossimo millennio ).
L'attualità, soprattutto delle Metamorfosi, è anche nel fatto che miti come quello di Narciso o di
Pigmalione "hanno avuto il sigillo dell'antonomasia, che ha permesso la loro migrazione in altri territori della cultura... Non più ormai personaggi del mito, ma piuttosto simboli presenti nell'immaginario e nel linguaggio comune" (Pianezzola)



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MITO DI DAFNE
Gian Lorenzo Bernini, "Apollo e Dafne" (1621-1623), Marmo, Galleria Borghese, Roma (Italia)

Dafne, figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra  e del fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia la cui vita fu stravolta a causa del capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta infatti la leggenda che un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di quattro giorni, incontra Eros che era intendo a forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.
Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.
Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza.  Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.

Francesco Albani, "Apollo e Dafne" (1615),  Museo del Louvre, Parigi (Francia)
Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.
Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO(1)


Racconta G.B. Marino nel poemetto dedicato alla ninfa:


"Non disse più, però ch'alfin s'accorse
esser cangiata in trionfal alloro
colei, che 'n volto umano tanto gli piacque,
e vide mezzo ancor tra bionda e verde
l'oro del crespo crin moversi a l'aura,
e sentì nel toccar l'amto legno
sotto la viva e tenerella buccia
tremar le vene e palpitar le fibre.
Colà fermossi e con sospiri e pianti
Tra le braccia le strinse, e mille e mille
vani le porse, e 'ntempestivi baci.
Indi de' sacri ed onorati fregi
del novello arboscel cinta la fronte,
coronatane ancor l'aurea cetra,
de l'avorio fecondo in atto mesto
sospeso il peso a l'omero chimato
e col dolce arco della destra mosso
tutte scorrendo le loquaci fila,
cantò l'historia dolorosa e trista
de' suoi lugubri e sventurati amori
"

La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.
Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".
Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori.
Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è solito cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili, con una corona di alloro.
Narra Ovidio:
"Quando i restanti canti orneranno i solenni trionfi
e lunghe pompe vedrà il Campidoglio,
sarai sul capo dei condottieri romani:
sarai fedele custode davanti alle porte imperiali
e la quercia mirerà ch'è nel mezzo

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