venerdì 15 gennaio 2021

Barocco!



L'IDENTITA' DEL BAROCCO: Fra la fine del 1400 e l’inizio del 1700 grandi cambiamenti storico-sociali e religiosi segnano il passaggio dall’Età Medievale all’Età Moderna. 


Gli spazi a disposizione dell’uomo raddoppiano con le grandi scoperte geografiche; la popolazione mondiale aumenta notevolmente; da un’economia e una società feudale si passa a un’economia e una società capitalistica; si afferma lo stato monarchico assoluto; il pensiero religioso è scosso da una forte crisi. Il mondo intero, entrato in piena Età Moderna, ha cambiato completamente il suo aspetto. Nel XCII secolo l'uomo comincia a porsi domande nuove in tutti i campi del sapere e a trovare nuove risposte: per molti si tratta di imparare a gestire la propria libertà, dignità e responsabilità appena conquistate (scomparsi i servi della gleba, nascono le nuove classi sociali); per altri di superare  crisi spirituali capaci di dividere popoli (la Riforma Protestante e la reazione della Chiesa Cattolica con la Controriforma sono spesso origine di numerose guerre di religione). Per tutti, i grandi cambiamenti storico-sociali e religiosi hanno significato una crisi dell'io, un io che però si scopre soggetto nuovo e autonomo, protagonista attivo del proprio sapere, separato dall'oggetto cui la conoscenza antica lo teneva legato. L'uomo del Seicento diviene consapevole che "la saggezza dell’uomo comincia con la conoscenza di se stesso, via principale di accesso alla conoscenza degli altri"; diviene inoltre fiducioso nella capacità riformatrice dell’opera umana, si impegna nella realizzazione dei propri obiettivi, interviene attivamente sulla propria esistenza e attribuisce alla vita di tutti i giorni un nuovo valore. 
Sul piano letterario la differenza tra "classico" e "barocco" è quella tra ordine, razionalità, equilibrio da una parte, e, dismisura, passione, dubbio dall’altra. È forse per tali caratteristiche distintive del Barocco che il Romanticismo prima e le Avanguardie novecentesche poi hanno simpatizzato con questo movimento culturale, riconoscendosi nel suo impulso passionale, intimo e "critico" (nel senso di crisi) e nella sua volontà di "scarto dalla regola".


Cronologia 1500-1600

1512 Cappella Sistina (papa Giulio II)
Michelangelo inizia a dipingere la Cappella Sistina, Raffaello è attivo nello stesso periodo. Leonardo da Vinci morirà nel 1519.
1513-1521 Leone X papa
Superficiale e mondano. Nel 1514 rinnova l'indulgenza per reperire fondi per la nuova fabbrica di S. Pietro. L'esosità dell'arcivescovo di Magonza e del suo emissario Teztel porteranno alle 95 tesi di Lutero.
1517 Tesi di Lutero
1519-1555 Carlo V imperatore
1519-1521 Prima circumnavigazione
Sotto la guida di Magellano
1520 Scominica di Lutero
1527 Sacco di Roma
Lanzichenecchi (soldati luterani) arruolati però da Carlo V assediano il papa Clemente VII (Medici) a Castel Sant'Angelo.
1529 Pace di Cambrai
Si conclude la II guerra fra Carlo V e la Francia. Con un accordo con il papa che prevede di rimettere a Firenze i Medici al posto della repubblica, e risistema tutti i domini papali ed italiani.
1531 Enrico VIII capo supremo della chiesa d'Inghilterra
Inizia il distacco della Chiesa d'Inghilterra da quella Cattolica Romana che sarà sancito nel 1534 (vedi)
1534 Ignazio de Loyola fonda i gesuiti
1534 Inghilterra Atto di supremazia
Enrico VIII "re" della chiesa d'Inghilterra. In quest'anno viene confermato dal Parlamento la chiesa anglicana come chiesa di stato con l'atto di supremazia ed il re ne è a capo. Nasce quindi ufficialmente la chiesa anglicana.
1534 Bibbia completa in tedesco
1545-1563 Il Concilio di Trento
Si apre il Concilio di Trento che andrà avanti con intervalli fino al 1563.
1546 Lutero muore.
-1603 Elisabetta I regina d'Inghilterra
1564 Cattolici Istituzione dell'Index librorum prohibitorum.
1572 Francia Notte di S. Bartolomeo
Il 23 agosto si scatena la violenza a tradimento da parte cattolica sui molti ugonotti (evangelici riformati) convenuti a Parigi per le nozze di Enrico di Borbone e Margherita di Valois.
1588 Disastro dell'invincibile armada e predominio inglese sui mari.
1598 Editto di Nantes.
1642 Rivoluzione inglese
Il parlamento non riconosce più Carlo I.
1645 Inghilterra Vittoria puritana

Le truppe puritane vincono contro Carlo I che viene giustiziato. Fra i puritani oltre a Oliver Cromwell (1559-1658) anche John Lilburne dei Levellers e Gerrard Winstanley dei Diggers. 

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IL BAROCCO E' TALMENTE MULTIFORME CHE CONVIENE SUDDIVIDERLO IN SEZIONI, O TASSELLI DI UN PUZZLE DA COMPORRE A PIACIMENTO. 



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1) LA FOLLIA DI TORQUATO TASSO (O IL TASSO FURIOSO)

Biografia (Treccani) di Torquato Tasso
  • Fabio Giunta  Ammalato? Ammaliato! Il corpo incantato di Torquato Tasso (sintesi da Griseldaonline)
    Nella biografia tassiana, il motivo del corpo incantato si intreccia con frequenza tale alla sua vicenda dell’umor nero e alla sua personalissima relazione con uno spirito, da diventare crocevia di alcuni saperi magico-rinascimentali.
    Nell’epistolario tassiano
    Marsilio Ficino stabilisce che la melanconia, umor nero dei saturnini, è, nel nesso genio-follia, la «malattia dei letterati». In una  lettera tassiana del 1 ottobre 1587 scritta a Scipione Gonzaga  il Tasso descriveva la propria condizione:
    “Io son poco sano, e tanto maninconico, che sono riputato matto da gli altri e da me stesso, quando non potendo tener celati tanti pensieri noiosi, e tante inquietudini e sollecitudini d’animo infermo e perturbato, io prorompo in lunghissimi soliloqui; li quali se sono da alcuno ascoltati (e possono esser da molti), a molti son noti i miei disegni, e quel ch’io speri, e quel ch’io desideri. La medicina de l’animo è la filosofia, con la quale io mi medico assai spesso. Laonde comincio a rider di tutti i miei infortuni, e di tutti i disfavori ch’io ricevo: che più? Rido ancora de la mala opinione c’hanno gli uomini di me, e de la mia passata sciocchezza, con la quale io la confermai: ma questo riso è così vicino al furore, ch’ho bisogno di veratro, o d’altro sì fatto medicamento che risani il corpo ripieno di cattivi umori, e purghi lo stomaco, dal quale ascendono al cervello alcuni vapori che perturbano il discorso e la ragione”
    Tasso ride dei suoi “infortuni” e “disfavori”.  Ed è proprio questo riso che ci fa pensare al filosofo folle Democrito che rideva della stoltezza degli uomini. In realtà, nella sua persona, riesce in questo modo a sintetizzare due personaggi: il Democrito “ridens” che schernisce la meschina e presuntuosa incompiutezza dell’umano agire e l’Eraclito “flens” divenuto folle lui stesso dopo il pianto per la follia del mondo.
    Ma veniamo ora alla convinzione che il Tasso nutriva circa la causa occulta della sua sofferenza atrabiliare, della sua malinconia, della sua esperienza personale del magico. È nella famosa lettera del 18 ottobre 1581 a Maurizio Cataneo che fa il suo ingresso la componente diabolica filtrata dall’elemento magico. Qui il Tasso lamenta due tipi di disturbi. I disturbi «umani» consistono in « grida di uomini, e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni, e varie voci d’animali» e «strepiti di cose inanimate». I disturbi «diabolici» constano invece di «incanti e malìe». Persino i topi «paiono indemoniati». Ma soprattutto, dichiara il poeta, «mi pare d’esser assai certo, ch’io sono stato ammaliato: e l’operazioni de la malia sono potentissime». Così potenti da risuonargli nelle orecchie «voci» nelle quali distingue « i nomi di Pavolo, Giacomo, Girolamo, Francesco, Fulvio e d’altri, che forse sono maligni e de la mia quiete invidiosi»11.
    Una lettera del 1583 al celebre medico Girolamo Mercuriale mostra come la sofferenza causata da questi disturbi sia aumentata. La stessa scrittura sembra più dettagliata ma allo stesso tempo disordinata e convulsa. Il Tasso sa di essere infermo sebbene «l’infermità mia non è conosciuta da me» e neppure «la cagione del mio male». Ma una cosa sa: «io ho certa opinione di essere stato ammaliato». E tra gli effetti ci sono i «tintinni ne gli orecchi e ne la testa, alcuna sì forti che mi pare di averci un di questi orioli da corda»; allo stesso tempo gli pare che molto spesso «parlino le cose inanimate12»
    Leggiamo in data 10 novembre 1585, come stanno andando le cose: “... le cose peggiorano molto; perciochè il diavolo, co’l quale io dormiva e passeggiava, non avendo potuto aver quella pace ch’ei voleva meco, è divenuto manifesto ladro de’ miei danari, e me gli toglie da dosso quand’io dormo, ed apre le casse, ch’io non me ne posso guardare. [...] E prego Vostra Signoria che m’avvisi d’averli ricevuti, e che faccia ufficio perch’io esca di mano del diavolo co’ miei libri e con le scritture, le quali non sono più sicure de’ danari”
    Come Armida che «con gli spirti anco favella / sovente, e fa con lor lungo soggiorno15» anche il Tasso passeggia e dorme con un suo “diavolo”. Dalla lettera si ricava inoltre che abbiano avuto un litigio e che per ritorsione, il diavolo, gli sottrae di notte i “danari”. E Tasso ormai teme anche per i suoi libri e le sue carte. La breve descrizione del diavolo tassiano è la prefigurazione del “folletto” che con i suoi dispetti tanto farà disperare Torquato il quale, infatti, circa un mese dopo, ci informa che nella sua camera «c’è un folletto c’apre le casse e toglie i danari, benchè non in gran quantità».
    Nella lettera del 25 dicembre all’amico Maurizio Cataneo il Tasso torna a lamentarsi ancora del folletto il quale, oltre a rubargli i “danari”, «mi mette tutti i libri sottosopra: apre le casse: ruba le chiavi, ch’io non me ne posso guardare21».  In una nuova lettera, il Tasso fornisce qui altri elementi circa «que’ miracoli del folletto». Riferendosi, infatti, alle ultime due lettere speditegli da Maurizio Cataneo gli scrive che:
    l’una è sparita da poi ch’io l’ho letta, e credo che se l’abbia portata il folletto, perchè è quella ne la quale si parlava di lui: e questo è un di que’ miracoli ch’io ho veduto assai spesso ne lo spedale; laonde son certo che sian fatti da qualche mago”
    Dopo un veloce accenno ai «miracoli del folletto» comincia a elencare la serie di «spaventi notturni» che lo atterriscono. Vede delle «fiammette ne l’aria» o addirittura «faville» che fuoriescono dai suoi stessi occhi, «ombre de’ topi» e «strepiti spaventosi». Ecco poi come dalle visioni si passa alle allucinazioni sonore quando «ne gli orecchi» sente «fischi», «titinni», «campanelle» e un rumore simile a «orologi da corda».
    Anche alla sorella Cornelia il Tasso non aveva velato di mistero le azioni magiche da lui subite poiché il 14 novembre del 1587 la informa circa il proprio stato di salute: Signora sorella, il mio male è veramente incurabile, e cresciuto con l’età, confermatosi con l’usanza, e con la simulazione de gli uomini; i quali non hanno voluto risanarmi, ma ammaliarmi”
    Già nel Malleus maleficarum, opera dei domenicani tedeschi Jacob Sprenger e Heinrich Institor, si leggeva di come il diavolo potesse vessare con maggiore intensità l’uomo con una predisposizione alla malinconia, anche se non era comunque escluso un intervento demoniaco sulla potenza cognitiva dell’uomo tramite un’alterazione degli umori e, di conseguenza, delle percezioni. Tale stravolgimento poteva avvenire tramite immagini di apparizioni fantastiche derivanti dalla memoria stessa della vittima affetta da morbo malinconico.
    Torquato parla ancora delle origini del suo male nella lettera a Giovann’Antonio Pisano in cui descrive le due «specie di malinconia» e cioè una «per natural temperamento» e l’altra «per mal nutrimento»; ma ne esiste «una terza specie ancora, la cui origine cominciò da lo stomaco con alcune mormorazioni torbide, e con esalazioni fumose, per le quali l’intelletto fu da crudele obumbrazione offuscato. Nè le dirò per malìa e per incanto s’accrescesse la mia fiera malinconia, per non parer simile a gli altri furiosi».
    Testimone di un’allucinazione o «inganno della fantastica virtù» del Tasso fu Giovan Battista Manso che nella Vita ci racconta che non solamente il folletto veniva a trovare il nostro poeta:
    “A queste noie che gli dava il folletto, o pure a lui pareva che gli desse, s’aggiunsero alcune apparizioni ch’egli stimava d’avere d’un altro spirito assai simile a quel ch’egli finse nel Messaggiero.
    Uno spirito dunque «in forma d’un giovanetto assai somigliante a quella ch’egli nel Messaggiero descrisse» appare al Tasso nonostante la smentita da lui stesso approntata nella lettera al Cataneo del 30 dicembre 1585. Fu così che uno spirito, «assai diverso dal folletto» del Messaggiero, «molto tempo dapoi cominciò ad apparirgli”. Leggiamo un’altra pagina in cui sembra trasparire un comprensibile imbarazzo nel vedere il Tasso alle prese con questo spirito:
    “egli, rivolto lo sguardo verso una finestra, e tenutolovi buona pezza buona pezza fitto, sì che rappellandolo io nulla mi rispondeva, alla fine: “Ecco (mi disse) l’amico spirito che cortesemente è venuto a favellarmi; miratelo, e vedrete la verità delle mie parole”. Io drizzai gli occhi colà incontanente, ma per molto ch’io gli aguzzassi, null’altro vidi che i raggi del sole, che per gli vetri della finestra entravano nella camera. E mentre io andava pur con gli occhi attorno riguardando e niente scorgendo, ascoltai che Torquato era in altissimi ragionamenti entrato con chi che sia; percioché quantunque io non vedessi né udissi altri che lui, nondimeno le sue parole, or proponendo e or rispondendo, erano quali si veggono essere fra coloro che d’alcuna cosa importante sono a stretto ragionamento; e da quelle di lui agevolmente comprendeva con lo ’ntelletto le altre che gli venivano risposte, quantunque per l’orecchio non l’intendessi”
Lettera da Sant’Anna  a Girolamo Mercuriale del 28 giugno 1583 
Torquato Tasso scrive:

qualunque sia stata la cagione del mio male, gli effetti sono questi: […] tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, alcuna volta sì forti che mi pare di averci un di questi orioli da corda: imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli; la qual mi perturba in modo, ch’io non posso applicar la mente a gli studi pur un sestodecimo d’ora; […] sono distratto da varie imaginazioni, e qualche volta da sdegni grandissimi, i quali si muovono in me secondo le varie fantasie che mi nascono. […] in tutto ciò ch’io odo, vo, per così dire, fingendo con la fantasia alcuna voce umana, di maniera che mi pare assai spesso che parlino le cose inanimate; e la notte sono perturbato da vari sogni; e talora sono stato rapito da l’imaginazione in modo, che mi pare d’aver udito (se pur non voglio dir d’aver udito certo) alcune cose…
(…)
Gli umani sono grida di uomini, e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di
scherni, e varie voci d’animali che da gli uomini per inquietudine mia sono agitati, e strepiti di cose inanimate che da  le mani degli uomini sono mosse. I diabolici sono incanti e malìe; e come che de gl’incanti non sia assai certo, percioché i topi, de’ quali è piena la camera, che a me paiono indemoniati, naturalmente ancora, non solo per arte diabolica, potrebbono far quello strepito che fanno; ed alcuni altri suoni ch’io odo, potrebbono ad umano artificio, com’a sua cagione, esser recati; nondimeno mi pare d’esser assai certo, ch’io sono stato ammaliato: e l’operazioni de la malìa sono potentissime, conciosia che quando io prendo il libro per istudiare, o la penna, odo sonarmi gli orecchi d’alcune voci ne le quali distinguo i nomi di Pavolo, di  Giacomo, di Girolamo, di Francesco, di Fulvio, e d’altri, che forse sono maligni e de la mia quiete invidiosi
.
Tra il novembre e il dicembre 1585 i fantasmi prendono sempre più forma:

…il diavolo, co’l quale io dormiva e passeggiava, non avendo potuto aver quella pace ch’ei voleva meco, è divenuto manifesto ladro de’ miei denari, e me li toglie da dosso quand’io dormo, ed apre le casse, ch’io non me ne posso guardare
. (…)
in questa camera c’è un folletto c’apre le casse e toglie i danari, benché non in gran quan-
tità; ma non così piccola, che non possa scomodare un povero come son io
(…)
.
Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello m’ha robati molti scudi di
moneta: né so quanti siano, perché non ne tengo il conto come gli avari; ma forse arrivano a venti: mi mette tutti i libri sottosopra: apre le casse: ruba le chiavi, ch’io non me ne posso guardare.

DELACROIX HA DIPINTO TASSO IN PRIGIONE A SANT'ANNA


E BAUDELAIRE NE SCRISSE UNA POESIA:
  • (componimento 324 delle Rime)
    (1580-‘86)
    .
    Qual rugiada o qual pianto
    quai lagrime eran quelle
    che sparger vidi dal notturno manto
    e dal candido volto de le stelle ?
    E perché seminò la bianca luna
    di cristalline stille un puro nembo
    a l’erba fresca in grembo ?
    Perché ne l’aria bruna
    s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
    gir l’aure insino al giorno ?
    Fur segni forse de la tua partita,
    vita de la mia vita ?
     __________________________________________________________-

    La malinconia dell' infinito nella ninnananna di Tasso  (Walter Siti)

    non so se questo madrigale di Tasso sia mai stato messo in musica: sembrerebbe fatto apposta e comunque non importa, perché la musica se lo porta dietro. Il madrigale cinquecentesco è un componimento breve di endecasillabi e settenari liberamente disposti, senza divisioni strofiche. Ma qui la libertà è solo apparente: i dodici versi sono in realtà divisi, dal punto di vista della rima, in tre quartine - nella prima le rime sono alternate, nella seconda sono incrociate, nella terza baciate. Come in un campionario. Nella prima quartina i due settenari precedono gli endecasillabi, nella seconda è l' inverso, come se fossero riflessi in uno specchio; nella terza endecasillabi e settenari si cedono reciprocamente il passo. La sintassi gioca a rimpiattino con la metrica, perché le frasi sono quattro e le quartine tre; l' ottavo verso è in bilico, come rima appartiene a ciò che lo precede mentre come senso appartiene a ciò che segue. Il delicato rapporto di equilibri e squilibri si manifesta anche tra il secondo e il terzo verso, dove un nesso banale come «quelle che» è spezzato dal ritmo, e un pronome senza dignità si ritrova a rimare addirittura con le stelle. Esitazioni appena accennate e canto spiegato, pause sapientissime e mai identiche, come un respiro che prima si trattiene e poi si distende - rilanciato dalle ripetizioni («qual...qual...quai», «e perché...perché», «intorno intorno»), incantato dalle allitterazioni («stelle...cristalline stille», «s' udian...dolendo», «fur segni forse»), fino al settenario finale che è specchio di se stesso e suprema dichiarazione, «vita de la mia vita». Artigianato strepitoso per un argomento esilissimo, il semplice lamento per la «partita», cioè la partenza, della donna amata. Tutta la natura la piange: le rugiade notturne erano lacrime e i venti si aggiravano gemendo. Non c' è nient' altro, si riassume in 140 caratteri e ne avanzano pure. Dunque aveva ragione Francesco De Sanctis a parlarne male nella sua Storia della letteratura, il Tasso lirico è molto fumo e poco arrosto? Era un poeta di corte, scriveva testi su commissione: era capace di commuoversi per la donna di un altro, non sappiamo nemmeno se questa sia davvero la sua donna. Aveva imparato le tecniche da Petrarca, ma anche dai petrarchisti più vicini a lui e da quelli lontani, spagnoli e portoghesi; il petrarchismo era diventato un passatempo di società, si faceva a gara a chi inventava la metafora più acuta, l' accostamento più sorprendente. La rugiada equivale alle lacrime della notte ma anche alle gocce di cristallo seminate dalla luna, in una competizione tra stellee stille ("stille" che forse, per alcuni filologi, si dovrebbero leggere come "stelle" terrestri, contrapposte alle celesti), tra bianco e candido - dentro l' aria circolano le aure (o le Laure). Melodia quasi senza contenuto, vacuo sentimentalismo come sarà poi in tante canzonette napoletane? Tasso era pur sempre di Sorrento... Ma c' è Leopardi. Leopardi sarebbe inconcepibile senza la musica della lirica tassiana, tanto l' ha saccheggiata e fatta propria. Leopardi era uno serio, di lui ci possiamo fidare: non si sarebbe fatto ingannare da una musica solo di superficie, la profondità ci dev' essere. Dov' è? Comincerei col dire che questa non è una poesia d' amore. È un paesaggio interiore, un' estroflessione di malinconia. La malinconia, diceva Freud, è il lutto per una perdita mai subita. Non importa se la donna sia sua, né dove sia andata; è Tasso che ha perso se stesso. «Vita de la mia vita» l' aveva già usato in una poesiola-omaggio di tipo pastorale: ma qui diventa davvero il nucleo più segreto di sé, l' individualità messa a rischio. Avete mai visto una poesia fatta solo di domande? E non sono forse i bambini quelli che chiedono continuamente "perché, perché"? La notte è una grande madre, nella cui buia cavità l' anima di Tasso si rifugia a piangere torti immaginari. Si autocommisera. C' è una lirica (quella sì d' amore, anzi di masochismo) in cui rivolgendosi alla donna dice «mentre soffro per voi avverto il piacere che vi procura la mia sofferenza e allora muoio anch' io di piacere». Solo nella rinuncia c' è la soddisfazione. La notte è descritta come la tradizione descriveva la donna: il candore, il manto, il grembo, l' erba, la frescura, l' aura - l' eros è recuperato ma dissolto nella natura, smaterializzato e negato. La conoscenza approfondita di una tradizione, se chi la maneggia è bravo, può permettere di nasconderci dentro quel che non si sa di dover dire. Tasso ha avuto una vita disgraziata, sballottato di qua e di là quand' era piccolo, sempre in preda a pulsioni bipolari, vittima di deliri di persecuzione e sociopatie fino a essere rinchiuso come pazzo, o quasi. È vissuto in un periodo storico di grande incertezza per l' Italia, tra crisi economicae dominio spagnolo, in una Ferrara dove la riforma protestante aveva messo in subbuglio le coscienze più sensibili; finito il Rinascimento e prima che arrivasse la rifondazione scientifica seicentesca, sentiva la realtà materiale attraversata da brividi di dubbio - il confine tra interno ed esterno si assottigliava. Ha patito sul proprio corpo i primordi della nevrosi contemporanea, quella che ora si direbbe dissoluzione dell' io; quando progettava in grande poteva alzare delle dighe ma qui, in un madrigale da nulla, la malinconia dell' infinito sale alla gola, come una disperata e fatua ninnananna.
                                                   WALTER SITI
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«Più ancora del sonetto» osserva il critico Hugo Friedrich «il madrigale è quell'espressione poetica per mezzo della quale il Tasso condusse la lirica italiana in un nuovo giardino incantato». Caratterizzate da una grande libertà metrica, sia nell'alternanza di endecasillabi e settenari, sia nel gioco mutevole delle rime, queste brevi composizioni si possono considerare come un paradigma della poesia manierista. La struttura trecentesca in quartine o terzine, da decenni ormai in disuso, è definitivamente dissolta in una struttura che è anzitutto musicale e poi semantica, dove la forma del contenuto passa spesso in secondo piano rispetto al fluire delle immagini acustiche, ed è comunque sempre omogenea ad esse.

Ma certamente il valore dei madrigali di Torquato Tasso non si esaurisce nella loro perfezione tecnica. Molti di essi, da considerarsi dei capolavori assoluti, introducono temi e motivi che rivelano nuovi atteggiamenti culturali e un vero e proprio mutamento di episteme. La natura che diviene protagonista (Tacciono i boschi e i fiumi...), la particolare sensibilità notturna (Al lume de le stelle...), l'uso di un espediente retorico come la "domanda lirica" (Qual rugiada o qual pianto...?), sono tutti segni di una misteriosa trasformazione che sta avvenendo nell'atteggiamento culturale degli uomini, ma di cui non si riesce a intravedere l'esito. E forse giocare con le frasi e le parole è anche un modo per razionalizzare ed esorcizzare questo mistero.  
(DAL BLOG VAGHEGGIANDO)

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2) IL TEMPO E LA MACCHINA 
L'orologio della torre di palazzo d'Accursio, Bologna

(foto Tonioni)

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  • SONETTI sul tempo: W. Shakespeare

  • Sonnet XII
  • When I do count the clock that tells the time,
    And see the brave day sunk in hideous night;
    When I behold the violet past prime,
    And sable curls all silver’d o’er with white;
    When lofty trees I see barren of leaves
    Which erst from heat did canopy the herd,
    And summer’s green all girded up in sheaves
    Borne on the bier with white and bristly beard,
    Then of thy beauty do I question make,
    That thou among the wastes of time must go,
    Since sweets and beauties do themselves forsake
    And die as fast as they see others grow;
    And nothing ‘gainst Time’s scythe can make defence
    Save breed, to brave him when he takes thee hence

  • Quando seguo l’ora che batte il passar del tempo
    e vedo il luminoso giorno spento nella tetra notte,
    quando scorgo la viola ormai priva di vita
    e riccioli neri striati di bianco,
    quando vedo privi di foglie gli alberi maestosi
    che un dì protessero il gregge dal caldo
    e l’erbe d’estate imprigionate in covoni
    portate su carri irte di bianchi ed ispidi rovi,
    allor, pensando alla tua bellezza, dubbio m’assale
    che anche tu te ne andrai tra i resti del tempo,
    perché grazie e bellezze si staccan dalla vita
    e muoiono al rifiorir di altre primavere:
    e nulla potrà salvarsi dalla lama del Tempo
    se non un figlio che lo sfidi quand’ei ti falcerà.      

    ALTRI SONETTI DI SHAKESPEARE SUL TEMPO CHE FUGGE    

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  • LA MACCHINA IN EPOCA BAROCCA:
  • Il motivo per cui il congegno meccanico ebbe una grande fioritura nel Seicento va cercato nella combinazione di una serie di fattori culturali che si verificarono in parte nel secolo precedente, primo fra tutti il ritrovamento negli ambienti umanistici di testi classici sulla teoria e la pratica delle arti matematiche, fisiche e meccaniche, quali i trattati di Euclide, di Archimede, di Vitruvio (il De Architettura contiene una parte dedicata alle macchine per moltiplicare l’energia umana utilizzate durante la costruzione di edifici ed opere pubbliche) e quelli di Erone d’Alessandria. Questo ultimo in particolare si iscrive nella tradizione degli automi (dal greco autòmaton, che si muove da sé), ovvero congegni che appaiono mossi da una forza interna misteriosa e che per questo destano grande meraviglia ed inquietudine.
    Contemporaneamente si diffuse a partire dal Cinquecento una spiccata sensibilità per la formazione tecnica e professionale e per la ricerca empirica in opposizione ad una pedante educazione letteraria e alle deduzioni a priori. Si cominciò cioè a preferire l’esperienza degli artigiani.
    Il primo a stabilire un equilibrio tra i due momenti fu Galileo, col suo metodo sperimentale, secondo cui la teoria riceve conferma grazie alla verifica pratica e la pratica viene spiegata e chiarificata dalla formulazione teorica; ciò implicò che le scoperte scientifiche e lo sviluppo delle invenzioni si alimentassero a vicenda spalancando ai sapienti dell’epoca nuovi campi d’indagine e nuovi settori d’approfondimento.
    Il filosofo della scienza Paolo Rossi spiega ad esempio che le lenti, benché conosciute fin dal medioevo, tornarono ad essere prese in considerazione nel Cinquecento ma solo grazie a Galileo uno strumento come il cannocchiale poté evolvere dallo status di oggetto d’uso (in ambito quasi esclusivamente militare) a quello di poderoso strumento di esplorazione scientifica. D’altra parte alla rivoluzione astronomica e alle scoperte geografiche è collegata l’evoluzione dell’orologio, da macchina incantevole ma piuttosto inesatta che riproduceva i moti celesti, che faceva sfilare delle figure semoventi e che suonava le ore mediante carillons, ad apparecchio di precisione in grado di misurare (grazie al pendolo) e conservare (mediante il sistema bilanciere-spirale) il tempo.
    L’osservazione e l’analisi del mondo fenomenico e i tentativi di volgere la sua potenza a vantaggio dell’uomo modificarono la percezione dell’arte (intesa come manipolazione, artificio) nei confronti della natura. Se prima l’arte era considerata un tentativo votato al fallimento di imitare la natura, 
    ora si ritiene che tra i fenomeni naturali e quelli artificiali indotti  dalla mano dell’uomo non sussiste differenza o gerarchia-

    Tra i prodotti della natura e quelli artificiali non solo non esisterebbe alcuna distinzione di essenza, ma si stabilirebbero anche delle meravigliose analogie: la macchina sempre più spesso serve da modello o termine di paragone per concepire e comprendere il funzionamento la natura, per cui, paradossalmente, si comincia a pensare che non l’arte è essa stessa natura, ma la natura è qualcosa di simile a un prodotto dell’arte. 

    La metafora del mondo come meccanismo raffinatissimo contribuì all’idea che
    conoscere la realtà vuol dire rendersi conto del modo in cui funziona la macchina del mondo e percepire che 
    l’intero universo è un unico organismo/meccanismo vivente/semovente.
  • La concezione copernicana e galileiana, oltre alla novità del metodo, ha offerto una nuova
    visione del mondo: ne sono derivati lo smarrimento dell’uomo in un universo infinito che non riesce più a controllare e una diversa concezione del tempo e dello spazio, che hanno
    determinato un diffuso senso di relativismo, di precarietà, di caducità,  (visibile in tutte le manifestazioni artistiche). Non a caso nella Premessa seconda del suo romanzo Pirandello farà dire a Mattia Pascal: «Maledetto Copernico!».
 (sugli automi: TRAILER f HUGO CABRET)
"„Se l'uomo in quanto Io pratico, per usare le parole di Kant, concepisce un nuovo tempo del mondo, in quanto Io teoretico riceve di ritorno questo suo tempo sotto forma di spiccioli. Il luogo ove egli può udire questa eco è l'orologio, e precisamente l'orologio nel suo senso più alto. Così, non solo intorno a noi, ma anche attraverso di noi, è sempre tesa una sottile griglia di tempo trasformato. Ma in noi vive anche la dimensione dell'eterno, un potere che si alimenta alla fonte dell'eterno e che, come il braccio di Gulliver, lacera la ragnatela del tempo dell'orologio. Lì è la nostra forza.“ —  Ernst Jünger filosofo e scrittore tedesco 1895 - 1998 Il libro dell'orologio a polvere, p. 130-131


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3)  LO SGUARDO DEL PITTORE 

      CARAVAGGIO
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  • 4) DON CHISCIOTTE
  • "Las Meninas di Velázquez e il Don Chisciotte di Cervantes sono senza dubbio i due capolavori più noti e studiati del Siglo de Oro spagnolo. Nelle Meninas, come nel Chisciotte, gli eroi della rappresentazione (il sovrano e i protagonisti dei romanzi di cavalleria) fanno letteralmente da modello per l'azione, cioè si fanno da parte, catalizzando lo sguardo di tutti i personaggi e facendo sì che la scena del testo ci restituisca l'immagine e il gioco di questi sguardi, collocandoci nel punto verso cui essi convergono.
  • Entrambe le opere presentano al pubblico un geniale autoritratto del proprio processo creativo, sono cioè capostipiti e modelli. Ciò che accomuna il capolavoro di Cervantes e quello di Velázquez è il grande tema seicentesco degli spazi di illusione"
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5) La scena del mondo
Nel 1645, il poeta spagnolo Calderon de la Barca mette in scena "El gran theatro del mundo" , Di fronte a Dio e alla corte gli uomini agiscono come attori. Lo spettacolo che rappresentano è l'esistenza, e il palcoscenico è il mondo. 

La scenografia del teatro barocco
https://www.baroque.it/cultura-del-periodo-barocco/letteratura/il-teatro-nel-periodo-barocco/la-scenografia-del-teatro-barocco.html

Michel Foucault su Las Meninas 
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  • FESTE BAROCCHE
La festa barocca ebbe, a Roma, numerose occasioni per esprimere le proprie valenze celebrative come rito sociale, evento culturale ed affermazione politica o religiosa, nelle vicende delle monarchie "cristianissime" di Francia e Spagna che, tramite i propri ambasciatori, organizzavano sontuosi intrattenimenti all’aperto nelle più varie ricorrenze.
Il grandioso apparato eretto a Trinità dei Monti, ancora priva della settecentesca scalinata, per la nascita del Delfino di Francia figlio di Luigi XIV e di Maria Teresa d’Austria, è un esempio della simbologia che accompagnava gli allestimenti di tali feste.Piazza di Spagna venne completamente trasformata da una costruzione effimera che ricopriva la facciata della chiesa: sui campanili grandeggiavano la iniziali del re e della regina di Francia al di sotto delle quali era posto un delfino sovrastato da una gigantesca corona; più in basso era situata una nuvola, mediatrice tra gli elementi naturali dell’acqua, aria e terra, nel mezzo della quale  una statua raffigurante la Discordia precipitava tra le fiamme.

Regista della festa ed ideatore dell’apparato effimero fu Gian Lorenzo Bernini, protagonista assoluto dell’architettura e della scultura seicentesca, che considerava l’allestimento di apparati festivi una parte integrante della progettazione globale dell’intera città, sia dal punto di vista urbanistico che decorativo. A lui venne delegata l’organizzazione dell’intera giornata festiva, lo spettacolo pirotecnico finale e, non ultima, la realizzazione grafica destinata a tramandare il ricordo di tanta magnificenza.

FESTE BAROCCHE A BOLOGNA
(festa in Piazza Maggiore)
Dai disegni conservati nella Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna datati circa alla metà del Seicento, viene documentato in maniera straordinaria come durante le sfarzose feste barocche quali l'annuale festa della porchetta, la piazza venisse delineata in spalti disposti a semicerchio, come se si trattasse di un edificio concluso vero e proprio, dotato di un ordine inferiore e uno superiore e con il pubblico ivi posto, che senza saperlo era già in un vero e proprio teatro d'opera. Inoltre venivano usate per la prima volta complesse macchine a pantografo, antesignane di quelle che poi verranno usate nel Teatro pubblico, ponti e delle strutture esterne che diventeranno poi le torri sceniche. SI TRATTA DEI COSIDDETTI APPARATI EFFIMERI. 
https://www.brightfestival.com/apparati-effimeri-la-scenografia-da-festa-nella-storia/

VIDEO MIBACT :

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  • 6) ADONE di GIOVANBATTISTA MARINO
  • (1569- 1625, vissuto tra Napoli, Torino, Parigi, Ravenna, Roma, a contatto con i più importanti pittori)
L’Adone, la cui prima stampa risale al 1623, è il poema più lungo della nostra letteratura: più di 40 000 versi in ottave, divisi in 20 canti  preceduti  da un proemio. L’opera risulta poco più lunga dell’Orlando Furioso di Ariosto, tre volte la Divina Commedia. 
Il tema, molto in voga nelle corti di allora, fa riferimento al mito dell’amore di Venere per il giovane Adone, che suscita gelosie e ostacoli di vario genere, fino alla morte del protagonista, ferito da un cinghiale. Ma ciò che salta subito all’occhio del lettore è la mancanza di una trama vera e propria: addirittura i critici hanno parlato di negazione della forma romanzesca, a favore di continue analogie, metafore, sovrapposizioni di immagini appartenenti a diversi mondi. 
E il mito, nell’opera di Marino, assume così la funzione di puro pretesto per una letteratura concepita come disimpegno e meraviglia.
Il poema "Adone" narra l'amore di Venere e del giovane bellissimo Adone che finirà per essere ucciso da un cinghiale, lanciatogli contro dal geloso Marte.  Vi ritroviamo tutti gli elementi del gusto barocco (concettismo, metafore, argutezza) e dalla trama principale che funge da filo conduttore dell’opera, nascono diversi episodi secondari e molte divagazioni fortemente allegoriche. Rispecchia fedelmente il gusto prevalente nel secolo  perché, come osserva il critico Giovanni Getto, “insieme con la meraviglia ricercata come emozione per il lettore, il poema esprime una meraviglia spontanea, che è l'emozione, lo stupore, la gioia del possesso che il Marino prova nel raccogliere, come in una raffinata e stupenda galleria, gli aspetti più svariati della realtà, gli oggetti più rari e preziosi”, poiché egli, come la maggior parte dei suoi contemporanei, “indifferente al mondo interiore, è proiettato verso quel che è esterno all'uomo”.Adone si presenta come una specie di enciclopedia poetica, in cui il Marino tenta di raccogliere tutti gli aspetti e gli oggetti del mondo fisico e le più varie reminiscenze letterarie, con un desiderio di esaurire tutto ciò che si può dire in poesia. 

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7) E. Tesauro - La metafora

 "Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado al più alto colmo delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell'umano intelletto. Ingegnosissimoveramente, però che, se l'ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti, questo apunto è l'officio della metafora, e non di alcun'altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all'altroesprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso,trovando in cose dissimiglianti la simiglianza. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per consequente ell'è fra le figure la più acuta: però che l'altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti.
Quinci ell'è di tutte l'altre la più pellegrina per la novità dell'ingegnoso accoppiamento: senza la qual novità l'ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito. E di qui nasce la meraviglia, mentre che l'animo dell'uditore, dalla novità soprafatto, considera l'acutezza dell'ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell'obietto rappresentato.
Che s'ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da' repentini cambiamenti delle scene e da' mai più veduti spettacoli tu sperimenti. Che se il diletto recatoci dalle retoriche figure procede (come ci 'nsegna il nostro autore) da quella cupidità delle menti umane d'imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume, certamente più dilettevole di tutte l'altre ingegnose figure sarà la metafora: che, portando a volo la nostra mente da un genere all'altro, ci fa travedere in una sola parola più di un obietto. Perciò che se tu di': «Prata amoena sunt», altro non mi rappresenti che il verdeggiar de' prati; ma se tu dirai: «Prata rident», tu mi farai (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l'amenità il riso lieto. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de' prati e tutte le proporzioni che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate. E questo è quel veloce e facile insegnamento da cui ci nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie." (Dal Canocchiale aristotelico)


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8) IL PENSIERO SCIENTIFICO - VEDI POST SU GALILEO

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