https://www.casadelmanzoni.it/
(Gennaro Tedesco - 18-01-2014)
Se l'Illuminismo sembra essere un tipico movimento intellettuale progressista, non dobbiamo credere che il Romanticismo sia necessariamente il contrario.L'illuminismo nasce e si sviluppa per opera di intellettuali europei della fine del ' 700 in funzione del riconoscimento oggettivo, politico dello status di classe generale ed egemone della borghesia europea.La genericità dello slogan rivoluzionario caratteristico della Rivoluzione francese , libertà, uguaglianza e fraternità, non è a caso. Questi tre valori così generici e vaghi servono ad aggregare il consenso intorno ad una borghesia che, altrimenti, farebbe fatica ad ottenerlo.Una volta che, però, la spinta ideologica e rivoluzionaria della borghesia francese si è esaurita, ad esempio l'Italia e la Germania, o meglio, gli intellettuali borghesi di questi due Paesi, scoprono si di aver contribuito all'affermazione della borghesia , ma di quella francese. Di qui, nei confronti dell'Illuminismo, più che una delusione, una revisione di certi atteggiamenti critici ed ideologici che passa attraverso un ventaglio di posizioni diversificate: il Romanticismo.Se in Francia per parecchi intellettuali borghesi (Chateaubriand o in Savoia De Maistre) il nuovo ricompattamento intorno al Romanticismo significa il ritorno all'Ancien Règime, alla tradizione legittimistica cattolica e l'accettazione quasi entusiastica della Restaurazione metternichiana, in Germania, ma soprattutto in Italia, il Romanticismo assume dimensioni e sviluppi del tutto diversi e progressivi.
In Italia il Romanticismo diviene un correttivo dell'Illuminismo.I valori antifeudali ed antiaristocratici, utilitaristici, della Rivoluzione francese non vengono perduti, anzi rafforzati dalla scoperta romantica del popolo nella sua dimensione originaria e nazionale. Ed è proprio il clima della Restaurazione metternichiana che rende sempre attuali in Italia quei valori eversivi della Rivoluzione francese corretti da un ritrovato spirito nazionale e quindi antiaustriaco della nostra intellettualità borghese. Nell'Italia della Restaurazione lo spirito rivoluzionario borghese della Rivoluzione francese diviene patrimonio del movimento nazionale borghese antiaustriaco.La borghesia italiana comincia ad acquisire i tratti di una vera e propria borghesia proprio nel momento in cui rivendica la propria identità nazionale contro l'Austria nel periodo della Restaurazione metternichiana .Un passo decisivo verso la ricerca di uno status ricapitolativo della situazione della borghesia italiana nel periodo del Romanticismo è dato dai " Promessi Sposi " di A. Manzoni. Nel romanzo storico di Manzoni troviamo i tratti distintivi dell'Illuminismo e del Romanticismo italiano: ricerca di un nuovo "rivoluzionario " linguaggio che sfocia nell'introduzione della lingua dell'uso contro l'accademismo linguistico, conseguente individuazione di un nuovo pubblico in senso lato borghese , formazione di un'opinione pubblica italiana che nella coincidenza della novità linguistica con i contenuti storico-nazionali (rifiuto istintivo dell'occupazione spagnola dell'Italia del '600, protagonismo sociale dei così detti " umili ", realismo) più facilmente e per la prima volta trova se stessa.
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PERCORSO BIOGRAFICO
PERCORSO TESTUALE
PERCORSO TEMATICO
1) Dante Isella: la grande officina dei Promessi Sposi
2) Manzoni inventore dell'italiano
3) Calvino: I Promessi Sposi come romanzo dei rapporti di forza
4) Pier Paolo Pasolini sui Promessi Sposi
5) Ezio Raimondi: Il sugo della storia
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QUI TROVI IL ROMANZO INTEGRALE (dal progetto Liber liber)
http://www.liceoberchet.gov.it/matdidattici/manzoni/index.htm
Leggi il saggio di Umberto Eco "Panoramica con carrellata"
Lo scrittore contemporaneo Umberto Eco, autore di numerosi saggi e romanzi tra i quali il best-seller internazionale Il nome della Rosa, legge la celebre pagina d’apertura dei Promessi Sposi come una grandiosa scena cinematografica, una “panoramica” che dall’insieme del paesaggio aperto del lago di Lecco si va via via concentrando su un punto particolare, là dove comincia l’azione della storia; e così ci spiega anche le ragioni della sua costruzione espressiva.
Infine, ci invita a una lettura “clandestina” del romanzo, per poterlo così godere fino in fondo.
Perché la prima pagina dei «Promessi Sposi» è costruita con periodi tanto lunghi? È chiaro, qui Manzoni sta facendo del cinema... Cerchiamo di immaginare che Manzoni avesse a disposizione grandi mezzi e dovesse scrivere la sceneggiatura per una storia che inizia a volo di elicottero. Naturalmente un elicottero con una telecamera a bordo. E rileggiamo questa pagina tenendo sotto gli occhi una carta geografica. Provate a farlo a scuola, i ragazzi si divertiranno.
Manzoni ha deciso che la sua descrizione dell’ambiente deve procedere anzitutto per un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di «zoom», è come se la ripresa fosse fatta da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti. Questa prima opposizione «alto verso basso», oppure questo primo movimento continuo dall’alto al basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a guardare il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla decisione di procedere da Nord verso Sud, seguendo appunto il corso di generazione del fiume. In conseguenza il movimento descrittivo parte dall’ampio verso lo stretto, dal largo al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.
La visione geografica, man mano che procede dall’alto verso il basso, diventa visione topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. Non appena questo avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall’alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio concreto. A questo punto l’ottica si ribalta, i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi. Per cui si dice del Resegone che «non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte...».
A quel punto anche i pendii e i viottoli, visti prima dall’alto, sono descritti come se fossero «camminati», con suggestioni non solo visive, ora, ma anche tattili. Solo a quel punto il visitatore, che cammina, arriva a Lecco. E qui Manzoni compie un’altra scelta: dalla geografia passa alla storia e quindi narra la storia del luogo che ha appena descritto geograficamente. Siamo, grosso modo, alla fine della prima pagina.
Non è bello? Ecco che questa pagina, sintatticamente così irta, non ci appare più misteriosa, è una grande panoramica con carrellata, è una discesa a volo d’uccello, e se non è fatta attraverso lo sguardo della televisione, è fatta attraverso gli occhi della Provvidenza, ovvero a volo d’angelo. Una planata superba. Allora si capisce perché i punti fermi debbono stare dove stanno, non prima e non dopo. I periodi non sono lunghi e ansimanti, hanno il respiro di un aliante. C’è di che riconciliarsi con «I Promessi Sposi». Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete.
Umberto Eco, in l’Espresso, 24 febbraio 1985
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MANZONI DA LEGGERE (pdf ADI)
MOSTRA VIRTUALE TRADUZIONI PROM SP (alla Sapienza di Roma)
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http://www.minimaetmoralia.it/wp/un-racconto-sulla-storia-della-colonna-infame-parte/
IL TESTO INTEGRALE
Introduzione
Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
[...]
Cap. 1
La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani.
C'era alla finestra d'una casa della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli... et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scrivere; et poi viddi che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, dove era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d'inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti, nell'esame che gli fu fatto il giorno dopo, interrogato, se l'attioni che fece quella mattina, ricercorno scrittura, risponde: signor sì. E in quanto all'andar rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d'un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione di questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in volta, per andar al coperto.
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Ma i tempi stretti in cui venne a trovarsi nell’estate del ’27, per concludere la stampa già tanto protratta dei Promessi Sposi, gli impedirono di dar fuori anche la Colonna infame, sicchè alla fine del cap. XXXII dichiarava ai lettori di rimandarla a “un altro scritto”: espressione che doveva favorire l’attesa, poi andata delusa, di un secondo romanzo storico. Intanto aveva provveduto a correggere la copia che aveva fatto trarre dalle carte del Fermo e dalla loro rielaborazione autonoma, e si potrebbe supporre persino che intorno al ’28 pensasse di stampare lo scritto sul processo agli untori in un volumetto a sé. Ma, quali fossero le ragioni – principale la necessità di nuove letture e di nuove ricerche – non se ne fece nulla, e la Storia della Colonna infame sarebbe apparsa soltanto come appendice (secondo progetto) della nuova edizione dei Promessi Sposi, lavorandovi il Manzoni fino agli ultimi mesi del ’42.
Oltre al De Peste del Ripamonti, fonte principale dell’informazione manzoniana fu il verbale del processo: non l’originale, perduto, ma l’estratto che ne dà una rara edizione secentesca della parte defensionale dell’avvocato del Padilla, come pure una copia manoscritta (di cui il Manzoni venne a conoscenza più tardi) già appartenuta al Verri e che fu da lui postillata nei margini. Sia della stampa secentesca, sia del manoscritto Verri il Manzoni fece fare una trascrizione accurata per suo uso (in tre volumi legati in pelle). Una terza copia, settecentesca, non del tutto conforme ai documenti precedenti, dovette venirgli alle mani successivamente e anche di essa si servì per il lavoro della nuova stesura della Storia.
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Giuseppe Ripamonti, De peste..., Mediolani, 1641.
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.
Alessandro Tadino, Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste...,
Milano 1648. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.
Leonardo Sciascia, da Introduzione alla "Storia della colonna infame", ed. Sellerio 1981;
rielaborazione di uno scritto del 1973
In questa sua introduzione alla "Storia della colonna infame" il grande romanziere siciliano difende con passione la denuncia sociale e giudiziaria portata avanti da Manzoni nel suo pamphlet, polemizzando contro la tesi espressa dal critico Fausto Nicolini che in un saggio del 1937 ("Peste e untori: nei "Promessi sposi" e nella realtà storica) aveva invece difeso l'onestà dei giudici, colpevoli per Manzoni di aver condannato come untori degli innocenti. Sciascia mette in guardia contro il rischio che "cattivi governi" trovino dei capri espiatori cui addossare la responsabilità dei propri fallimenti, ma evidenzia anche il rischio del "fascismo" che è sempre presente e può talvolta manifestarsi sotto forma di una giustizia sommaria, anche nei tempi moderni apparentemente lontani dall'ignoranza e dalla superstizione del Seicento.
Leonardo Sciascia (1921-1989) è stato uno dei più brillanti scrittori del secondo Novecento, impegnato soprattutto nella narrativa poliziesca e di denuncia del sistema mafioso (da ricordare suoi romanzi di successo quali "Il giorno della civetta", "A ciascuno il suo", "Todo modo"), nonché in saggi di ricerca storiografica e in libri-inchiesta sul fenomeno del terrorismo negli anni Settanta. Fu anche parlamentare, eletto tra le file del Partito Radicale e fece parte della commissione parlamentare d'inchiesta sull'assassinio di Aldo Moro.
La figura dell'untore, che già si era materializzata nella peste del 1576, [...] ebbe in quella del 1630 una più tragica, moltiplicata e prolungata apoteosi. E non solo a Milano. Ma su quella di Milano, sulle memorie cittadine che ne restavano, sulle carte che la descrivevano, si abbatteva nel secolo successivo lo sdegno di Pietro Verri, illuminista; e ancora un secolo dopo, nel XIX, la non meno sdegnata ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni, cattolico.
Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. Quando il Nicolini (che più volte avremo occasione di richiamare per il suo libro su Peste e untori, 1937) dice che "l'istruttoria venne delegata a un Monti e a un Visconti, ch'è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l'integrità, l'illibatezza, l'ingegno, l'amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile", coraggio civile a parte, e cioè in meno, viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: "una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività" […]. Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono "burocrati del Male": e sapendo di farlo. Che si potesse, come oggi in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino, medico, ci credeva: ma allora non c'era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino, in fatto di medicina, non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura, nelle pagine dei Promessi sposi, col senno di poi; ma è, in effetti, il ritratto del Tadino, tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle, e morì prendendosela con le stelle e non cogli untori. Ma contro il Tadino che ci credeva, altri non ci credevano. L'opinione del cardinale Federico Borromeo non era del tutto netta [...].
Non c'è dubbio che il cardinale abbia, sulla diffusione della peste, idee più chiare di quelle del protomedico; ma - senza volere essere irriverenti verso un uomo che non fu sordo alla pietà come alla ragione - si ha l'impressione che, non fosse questione di bottega, crederebbe anche alle unzioni, così come crede agli untori. Ma tra la bottega degli untori e la propria, tra la peste creata e amministrata dagli uomini e la peste inviata come dono-punizione da Dio, il cardinale non può che scegliere la propria, e alimentarle credito. Ammette dunque gli untori: che cioè ci sia stata della gente intenzionata, per dirla manzonianamente, a "spiantare Milano"; ma per squallida e folle operazione di magia, senza averne effettivamente i mezzi. E si poteva l'intenzione, fondata sull'ignoranza e la follia, per quanto malvagia fosse, punire tanto atrocemente? Il cardinale non si pronuncia. Né si pronuncia il Ripamonti, che pure lascia intravedere una più decisa opinione contro la credenza. Ma aveva già passato i suoi guai, col Sant'Uffizio: e da quella esperienza era venuto fuori prudente, circospetto. [...]
Siamo alle solite: la religione e la patria. Abbiamo comunque, nero su bianco, l’opinione di due persone – il presule della chiesa lombarda, l’uomo di lettere ufficialmente incaricato di far la storia di quegli eventi – che non credettero alle unzioni. Quante altre ce ne saranno state dello stesso avviso? Certo, erano persone la cui opinione doveva avere una qualche influenza. Ma in ogni caso, bastano il Borromeo e il Ripamonti a dirci che i tempi non erano così oscuri e che un uomo intelligente e onesto poteva e doveva, specialmente esercitando ufficio di giudice, arrivare se non alla convinzione del secondo, almeno a quella del primo. E secondo il Nicolini quei due gentiluomini che condannarono i presunti untori, il Monti e il Visconti, avevano ingegno, erano onesti. Due qualità che, nel caso, non potevano coesistere: perché è possibile fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti.
Ma non c'è causa, per quanto irrimediabilmente persa, che non trovi un suo difensore: anche dopo tre secoli. Contro Verri e contro Manzoni, in difesa dei giudici che avevano torturato e condannato ad atroce morte degli innocenti imputati di un delitto che anche allora, da alcune menti razionanti, era considerato impossibile, ecco levarsi ai giorni nostri Fausto Nicolini. "Fondato sul presupposto che le sole prove effettive di reità raccolte contro gli imputati furono le loro confessioni e denunzie reciproche, strappate con la tortura o la paura di questa, il Verri aveva attribuito l'errore giudiziario, che li trasse a morte tanto orrorosa, all'inconcludente barbarie così di quel mezzo probatorio come dei tempi nei quali era parso naturale e indispensabile, contro i quali tempi, da buon illuminista, egli imprecava. Che, a prescindere da qualche inesattezza nel presupposto, è un esempio cospicuo d'una conclusione totalmente illogica appiccicata a un ragionamento più o meno logico". E qui ci par di capire che la tesi del Verri vien liquidata in nome del più pedante storicismo; per il fatto che c'erano, l'oscurità delle menti e la tortura nelle istituzioni, non potevano non esserci - e prendersela con quegli uomini, con quelle istituzioni, è come prendersela con un fatto di natura, un terremoto, un nubifragio. Non tiene per nulla in conto, il Nicolini, che il Verri faceva una battaglia; una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre. Liquidato, di passata, il Verri, Nicolini s'impegna di punto a liquidare la Storia della Colonna Infame. Il suo principale argomento, tutto sommato, non è però che questo: gli imputati avevano, come si suol dire in linguaggio poliziesco-giudiziario, dei precedenti. Non tutti; né, si capisce, in fatto di unzioni. [...] Altro argomento del Nicolini, in discarico ai giudici e a carico degli imputati, è che non tutte le confessioni avvennero avvennero sotto tortura: ma prima o dopo o nelle pause. Singolare argomento, e da uomo che non riesce a vedere al di là delle carte gli uomini, gli individui, i personaggi: la loro estrazione, il loro diverso carattere, la maggiore o minore forza d'animo, la maggiore o minore sensibilità al dolore fisico, la paura in ciascuno più o meno forte, il diverso grado di credulità o di fiducia. E additare l'esempio del giovane figlio del Migliavacca, "che né lusinghe né forza di tormenti indussero mai ad accusare bugiardamente sé e altri" (ma fu afforcato come gli altri), e che gli altri imputati avrebbero potuto seguirlo, è a dir poco ingenuo.
Ma tra tanta, diciamo, ingenuità; tra tanta, direbbe il Manzoni, scarsa conoscenza del cuore umano, c'è nel saggio del Nicolini un breve passo che sommamente ci interessa: "poiché il Manzoni non solo s'ostinò in quel tentativo disgraziato, ma, dopo un'incubazione di circa vent'anni, dié anche alle stampe, rifatta, ampliata e molto accentuata, quella dissertazione infelice, è mai possibile non concludere che in lui il moralismo fosse mille e mille volte più prepotente non solo della logica (violata, come ognun vede, nel modo più palmare), ma persino delle sue credenze religiose?" Quel tentativo disgraziato, quella dissertazione infelice: sono, a dirla francamente, sciocchezze da ricercatore d'archivio intriso di estetica crociana che non riesce a vedere né i fatti nella loro totalità e nel loro significato né l'opera nella sua interna e intera logica e poesia. Ma la domanda finale ha (è il caso di dire: finalmente) un senso; può aprire, a rispondere affermativamente, un discorso. Il moralismo - termine oggi in disgrazia, che come una goccia d'acqua si vaporizza se cade sulle roventi ingiustizie dei nostri anni, e quel breve vapore si dice qualunquismo - il moralismo appunto è in Manzoni molto più prepotente delle sue credenze religiose. E dalla Colonna infame, più che dal romanzo (al romanzo bisogna tornare dopo aver letta l'appendice), questa verità appare in tutta evidenza. In uno scritto del 1927 sui Promessi sposi Hofmannsthal ad un certo punto dice: "Questa altissima vitalità, che è anche un culmine di discrezione, viene attuata da una rappresentazione estremamente modesta, penetrante e precisa, che nel tono somiglia a una relazione, che un amministratore (sia egli amministratore di beni terreni o di anime) fornirebbe a uno più alto, per informarlo in maniera veramente precisa perché egli ne possa ricavare un giudizio".
Non sappiamo se Hofmannsthal lesse mai la Storia della Colonna Infame: si sarebbe accorto che non soltanto nel tono ma fondamentalmente, in essenza, è una relazione; e non a "uno più alto" ma a se stesso e ai suoi simili.
(da Introduzione alla "Storia della colonna infame", ed. Sellerio 1981;
rielaborazione di uno scritto del 1973)
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Manzoni parte da un’idea di letteratura in cui storia e invenzione convivano pacificamente senza farsi concorrenza (con tutta una serie di indicazioni e restrizioni, beninteso) per approdare poi abbastanza precocemente a un completo rifiuto della commistione di storia e invenzione e dello stesso romanzo storico. La rigorosa ricerca della verità storica impone allo scrittore di tenere separati i due aspetti. Aut aut, insomma: romanzo d’invenzione o saggistica storica. Tertium non datur. È questa una della ragioni del lunghissimo silenzio letterario di Manzoni dopo i Promessi sposi.
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Così Leonardo Sciascia nella Nota che chiude “La strega e il capitano”, libro pubblicato nel 1986. Lo spunto per la composizione di questo testo, che ha tutta l’aria e lo stile di un documento di ricostruzione storica, arriva dal capitolo trentunesimo de “I promessi sposi”. Qui Manzoni cita il protofisico Lodovico Settala, professore di Medicina ed autore di numerose opere reputatissime. I meriti del Settala però non impedirono al popolo milanese di vedere in lui una specie di untore:
Ed è proprio alla “povera infelice sventurata” strega che Sciascia dedica il suo racconto. Caterina Medici, questo il suo nome, strangolata ed arsa in piazza il 4 marzo 1617. La volontà di chiarezza e la ricerca della verità storica sono alla base del libro dello scrittore siciliano che, a differenza del Manzoni, ricostruisce nei dettagli la vicenda processuale di Caterina evitando di omettere i nomi dei prestigiosi personaggi coinvolti. Un’omertà manzoniana, e non solo, spiegata dallo stesso Sciascia come una sorta di deferenza nei confronti di famiglie influenti e troppo prestigiose per essere associate, seppur a distanza di secoli, a vicende tanto oscure ed ambigue.
Caterina Medici era la fantesca del senatore Luigi Melzi. Uomo potente, circondato da un nugolo di figli e, all’epoca dei fatti, poco più che sessantenne. Il senatore Melzi soffriva di strani dolori di stomaco, inspiegabili al gruppo di medici a cui si era rivolto. Malesseri che né il Settala (lo stesso di cui parla Manzoni), né il Clerici, né il Selvatico (altri due illustri uomini di scienza consultati dal senatore) riuscirono a giustificare e a guarire.
I primi sospetti di stregoneria nei confronti di Caterina iniziano a prendere forma quando in casa Melzi giunge il capitano Vacallo (30 novembre 1616). Costui, come folgorato da non si sa quali intuizioni oltre che suggestionato da una situazione personale risalente a qualche anno prima, inizia a congetturare che i dolori del senatore possano essere ricondotti alla presenza di Caterina. Ne parla prima con Gerolamo Melzi, figlio di Luigi, e poco dopo con il malato in persona. Le suggestive ipotesi di Vacallo, confermate da un certo Cavagnolo, nell’arco di pochissimo tempo, divengono accuse. Caterina viene denunciata come “strega professa” il 26 dicembre 1616. La donna, infatti, aveva confessato e confermato di praticare l’arte della stregoneria: Caterina Medici credeva di essere una strega o, quanto meno, aveva fede nelle pratiche di stregoneria. E forse una fede meno intera di quella dei suoi accusatori: poiché, in fatto di stregoneria, l’inquisitore e l’inquisito, il carnefice e la vittima, partecipavano dell’uguale credenza…
Caterina confessa di aver applicato dei malefici al senatore affinché lui si innamorasse di lei e di averli applicati con l’aiuto del diavolo. La donna viene interrogata spesso e da personaggi diversi ma l’esito non cambia: la scienza medica nulla poteva nella diagnosi del male di Luigi Melzi non per deficienza scientifica ma perché la medicina si annulla al cospetto dell’ostacolo diabolico. Un paradosso su cui Sciascia si sofferma in vari momenti e con sottilissima ironia.
Il processo di Caterina si svolge in tempi abbastanza rapidi. Accuse, domande, chiarimenti, confessioni. Caterina parla e spiega agli uomini di giustizia quello che probabilmente spera essi vogliono sentire. La tortura non fa che ampliare la sua disperazione. L’intento del Capitano di Giustizia è quello di giungere alla verità, con l’appoggio immancabile della Curia. Ma la tortura non porta ad alcuna verità: “è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla”, scrive Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”. Caterina fa altri nomi, probabilmente inventa situazioni e si auto accusa di malefici, malanni e morti di cui non ha alcuna responsabilità. Perché Caterina spera nel perdono e nella clemenza dei suoi aguzzini che, invece, fanno di lei una creatura da punire ed annientare affinché possa essere da monito e minaccia.
Con la morte di Caterina, dunque, la Giustizia aveva trionfalmente concluso il suo corso, i medici avevano trovato un capro espiatorio utile a coprire la loro inettitudine e la città di Milano aveva cancellato una delle tante presenze diaboliche che la infestavano.
Un libro breve, “La strega e il capitano”. Una vicenda ricostruita con attenzione e pervasa da costante spirito di giustizia. Sciascia ha voluto restituire alla storia di Caterina un senso di verità e dignità evidenziando, per contrasto, la povertà culturale ed umana di individui apparentemente preparati ed eruditi. Anche se si tratta di una vicenda minore, di un episodio dimenticato e sepolto dai secoli, la vicenda della Medici è emblematica di una fase storica molto importante e spesso trascurata. Un libro pieno di citazioni, di frasi estrapolate da documenti risalenti al XVII secolo, di riflessioni sul mondo della giustizia civile e religiosa. E Sciascia non manca, in alcuni passaggi, di creare un parallelismo tra il passato e il presente quasi a voler sottolineare quanto spesso gli errori compiuti non siano serviti a rendere il tempo attuale migliore o più umano.
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pERCORSO TEMATICO SULLA PESTE (PROMESSI SPOSI, DEFOE, CAMUS, KING)
resta / che far torto, o patirlo”
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